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Le motivazioni della condanna. I giudici di primo grado: «Lucano voleva arricchirsi»

Domenico Marino, Cosenza sabato 18 dicembre 2021

Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, condannato in primo grado. Presenterà ricorso

«Domenico Lucano, dopo aver realizzato l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel “Modello Riace”, preso a esempio da tutto il mondo, resosi conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, aveva pensato di reinvestire in forma privata gran parte delle risorse, con progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti».

Lo scrive il presidente del Tribunale di Locri, Fulvio Accurso, nelle motivazioni della sentenza con cui il 30 settembre l’ex sindaco di Riace è stato condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di reclusione, e al risarcimento di oltre 750mila euro, nel processo Xenia su presunti illeciti nella gestione dei migranti. Pena pari a quasi il doppio della richiesta del pm: 7 anni e 11 mesi.

Lucano è accusato d’associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. S’è sempre difeso, ribadendo di non avere preso nulla per sé. Parole richiamate nelle motivazioni: «Nulla importa che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca – come orgogliosamente si è vantato a più riprese – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza».

Sfogliando il voluminoso faldone delle motivazioni emerge la linea che ha portato alla condanna. Con Lucano «dominus indiscusso del sodalizio» considerato un’organizzazione «tutt’altro che rudimentale, che rispettava regole precise cui tutti si assoggettavano, permeata dal ruolo centrale, trainante e carismatico di Lucano il quale consentiva ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale».

Lucano guardava al futuro, ma secondo i giudici non dei migranti né di Riace, ma suo. Gli investimenti che avrebbe fatto coi soldi avanzati dal progetto di accoglienza per i migranti (l’acquisto di un frantoio e di immobili da destinare ad alberghi per l’accoglienza turistica) «costituivano una forma sicura di suo arricchimento personale, su cui sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse». Il tribunale non ha concesso le attenuanti invocate dai difensori «non essendovi alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale, essendo invece emerso dalle intercettazioni che la finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti».

Altrettanto dura la reazione ieri sera di Mimmo Lucano che ha definito la sentenza basata su «cose non vere» e anticipando il ricorso in appello. Al suo fianco è da tempo schierato un ampio movimento di intellettuali. È stata lanciata pure una raccolta fondi per aiutarlo, se condannato in via definitiva, a pagare l’ingente risarcimento.