Il caso. «Troppi silenzi sull'omicidio del vescovo Colombo a Mogadiscio»
Monsignor Salvatore Colombo con papa Giovanni Paolo II
È una storia dimenticata, sepolta sotto 28 anni di colpevole silenzio. Monsignor Salvatore Colombo, vescovo francescano di Mogadiscio, originario di Carate Brianza, fu assassinato il 9 luglio 1989 dietro la cattedrale della capitale somala. Un sicario lo sorprese al buio e gli sparò un colpo al cuore. Un delitto perfetto, senza colpevole né movente, su cui nessuno ha mai indagato. Non risulta infatti alcuna inchiesta aperta dalla magistratura italiana. La vicenda, dopo una fugace quanto inutile interrogazione parlamentare, scivolò nell’oblìo.
Padre Massimiliano Taroni quel giorno era presente. Era un seminarista di 23 anni, invitato dal vescovo a passare un periodo nella missione in Somalia. Fu tra i primi a soccorrerlo. «Eravamo in cattedrale, stavamo cantando l’Agnus Dei – ricorda –. All’improvviso sentimmo uno sparo fortissimo. Uscimmo e trovammo monsignor Colombo a terra. Mormorava e pregava: lo portammo in sacrestia su un’asse di legno. Morì in ambulanza, prima di riuscire ad arrivare in ospedale. Una fine da martire. Eppure…».
Padre Taroni si interrompe, pesa le parole ma stenta a trattenere l’amarezza. Da 28 anni un tarlo gli logora l’anima: nessun magistrato ha mai ascoltato la sua testimonianza e i suoi tentativi di far luce sull’omicidio si sono sempre scontrati contro un muro di gomma. «Fin dal mio rientro in Italia ho subito avuto la sensazione che di questa storia si dovesse parlare il meno possibile. E pensare che monsignor Colombo è rimasto 42 anni in Somalia ad aiutare i poveri. Durante la guerra dell’Ogaden si adoperò per procurare cibo e alimenti: grazie a lui si salvarono decine di migliaia di persone». Nonostante tutto il bene fatto, nessuno in tutti questi anni ha tentato di rendergli giustizia. «Le stranezze all’epoca furono tante. Il killer, un somalo, era già stato in cattedrale il mattino: il custode lo aveva riconosciuto. Venne per parlare con monsignor Colombo e si trattenne con lui mezzoretta. Tornò la sera, e il guardiano lo lasciò passare. Tentò di rincorrerlo dopo l’agguato, ma era buio pesto. Fu un’esecuzione pianificata, l’obiettivo era proprio il vescovo». Padre Massimiliano è netto: «Si è detto che nel mirino potesse esserci monsignor Giorgio Bertin (attuale vescovo di Gibuti, all’epoca vicario di Colombo, ndr), ma è impossibile. Era in vacanza da due mesi. Un altro mistero: il bossolo non è mai stato trovato. E la polizia somala indagò in modo singolare: nei giorni successivi continuarono a farci domande strampalate, che non c’entravano nulla ». Possibile che monsignor Colombo, con la sua attività caritatevole, concentrata su microprogetti concreti, si fosse fatto dei nemici? «Lui era un tipo molto diplomatico, ma dal carattere fermo. Perciò era scomodo. Non si fidava di chi gli stava attorno, mi raccomandava sempre di non parlare mai di questioni politiche a cena, di fronte al personale somalo. Il regime di Barre lo controllava, si percepiva. Le spie si nascondevano anche tra i mendicanti fuori dalla cattedrale».
Cercare indizi nell’archivio della missione, forse, avrebbe potuto aiutare a risolvere il mistero. Ma nessuno si preoccupò di consultare le carte del presule, né di metterle in salvo quando scoppiò la guerra civile. Tutti i documenti andarono distrutti nel 1991, quando la cattedrale fu rasa al suolo. I resti di monsignor Colombo, che lì erano stati seppelliti, furono profanati e dispersi. Quel che ne rimaneva fu pietosamente recuperato dai paracadutisti italiani e traslati nel Santuario di Sant’Antonio, accanto al convento dei francescani di via Farini, a Milano. Dove la mamma lo accompagnò, ancora ragazzo, quando le disse che voleva farsi frate. Fra’ Mario Vaccari, vicario provinciale dei frati minori del Nord Italia, sottolinea l’attualità del suo sacrificio: «La vicenda di monsignor Colombo è un esempio per tutti noi, in particolare per i giovani frati. Ci ricorda che siamo un ordine missionario: san Francesco ci ha detto di andare dove gli altri non vogliono, senza paura di rischiare la vita. La testimonianza di monsignor Colombo alza la qualità della nostra scelta, invitandoci a non imborghesirci né ad accontentarci del solito tran tran».
«I mandanti avevano a che fare con l'Italia»
Chi ha ucciso il vescovo Colombo? La domanda, 28 anni dopo, resta senza risposta. Una possibile pista, ricostruita da Avvenire, potrebbe celarsi dietro le tante ombre della cooperazione italiana in Somalia. Nel ’99, testimoniando al processo per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (il caso è stato archiviato pochi giorni fa), l’ex agente dei servizi Aldo Anghessa fu perentorio: «Monsignor Colombo era contro la Giza». Cioè una delle maggiori imprese italiane in affari con il regime di Barre. Un rapporto molto stretto, da cui nacquero la Gisoma e la Shifco. La prima operava nel settore zootecnico, la seconda nella pesca. Entrambe erano gestite da Omar Said Mugne, potente uomo del regime. Sulla flotta Shifco (rilevata dopo un anno da altri italiani) gravò a lungo l’ombra del traffico d’armi. Ilaria Alpi indagava proprio su questi sospetti, mai però dimostrati in un tribunale nonostante la valanga di dossier dei servizi e le inchieste giornalistiche. La Gisoma, principale beneficiaria dei fondi elargiti dall’Italia (nel 1983 ottenne un finanziamento di 50 miliardi di lire), costruì invece una conceria. Anche monsignor Colombo ne progettava una.
L’8 marzo 1995 Piero Ugolini, ex coordinatore della cooperazione in Somalia e autore di un dossier scottante sul tema, parlò alla Commissione parlamentare d’inchiesta di «una possibilità di concorrenza» che qualcuno potrebbe aver voluto «stroncare »: «È evidente che il vescovo aveva un elemento di forza nella capillarità dei suoi contatti con i pastori, poteva avere le pelli mentre la Giza non le ha mai avute». L’impianto costruito con i miliardi italiani finirà infatti per non funzionare mai, come annotato sui taccuini della stessa Alpi. La Giza, passata più volte sotto la lente dei giudici proprio per il suo ruolo in Somalia, in seguito è fallita (dopo tanti anni non è stato possibile sentire la versione degli ex vertici, ndr).
Ugolini indicò un altro fattore di rischio per il vescovo: «Colombo si rifiutava di discriminare gli aiuti della Caritas come invece chiedeva Barre, che pretendeva andassero a chi diceva lui». Ma aggiunse anche: «Si disse subito che i mandanti avevano a che fare con l’Italia. Quel che è certo è che si trattò di un delitto su commissione». Affermazioni pesanti, che nessuno pare aver mai approfondito. Il business delle pelli fu indicato come possibile movente anche dal colonnello Luca Rajola Pescarini, all’epoca inviato del Sismi in Somalia. Quando la Commissione d’inchiesta Alpi/ Hrovatin gli chiese conto dei suoi strani contatti con tale Issa Ugas Abdulle, appartenente al clan di Barre e presidente dell’Ente somalo pellami, nonché presunto trafficante d’armi, lo 007 rispose: «Non mi era particolarmente simpatico perché era sospettato dell’uccisione di quello che era sì un mio amico, ossia monsignor Colombo».
Tanti indizi, nessuna prova. I servizi segreti italiani misero in guardia il vescovo, ma non bastò. «Gli dissi di stare attento, di non esporsi troppo – ricorda oggi l'ex agente Anghessa –. Ma lui mi rimproverò e mi rispose che stava semplicemente dando testimonianza del Vangelo».