40 anni fa. L'uccisione di Aldo Moro: l'ultimo tentativo del Papa di salvarlo
Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in una Renault in via Caetani, a Roma, il 9 maggio 1978 (Fava/Ansa)
Alle 9.30 di questa mattina il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente della Camera, Roberto Fico, e il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, depositeranno una corona sotto la lapide che ricorda Aldo Moro, in Via Caetani. Era il 9 maggio 1978, quando il cadavere dello statista democristiano veniva ritrovato, al termine dei 55 giorni che sconvolsero l’Italia nel bagagliaio di una Renault 4 rossa abbandonata in via Caetani. Un luogo simbolico, a metà strada tra piazza del Gesù, dove c’era la sede nazionale della Democrazia cristiana, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista. Poche ore dopo il ritrovamento del cadavere, annunciato da una telefonata del brigatista Valerio Morucci, Francesco Cossiga si dimise da ministro dell’Interno. La famiglia di Moro rifiutò i funerali di Stato, ritenendo le istituzioni responsabili di non aver fatto abbastanza per salvargli la vita. Tra i fondatori della Democrazia cristiana e rappresentante del suo partito alla Costituente, Aldo Moro divenne segretario del partito nel 1959. Più volte ministro, come presidente del Consiglio guidò diversi governi di centrosinistra (1963-68), promuovendo nel periodo 197476 la cosiddetta strategia dell’attenzione verso il Pci. Il sequestro avvenne proprio mentre prendeva forma il governo di solidarietà nazionale, progettato con il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer. Alcuni giorni dopo il ritrovamento, papa Paolo VI, amico e confessore dello statista, celebrò una commemorazione funebre pubblica a cui parteciparono numerose personalità.
Anticipiamo in queste colonne alcuni stralci del capitolo “La villa pontificia” del volume di Maria Antoniettà Calabrò e Giuseppe Fioroni “Moro. Il caso non è chiuso. La verità non detta”, in uscita giovedì 10 maggio per Lindau (pagine 272, euro 18,00). Il libro è basato su tutti i documenti che hanno composto la relazione presentata alla Camera, lo scorso dicembre, dalla commissione d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, di cui Fioroni è stato presidente. Il testo è basato sui documenti inediti raccolti dalla commissione in questi anni, alcuni desecretati solo nel 2017 – molti dei quali riportati in appendice di volume – e delinea uno scenario nuovo, che parte dalla dinamica del rapimento e arriva ai piani di Gladio e alla politica internazionale. Il volume sarà presentato in anteprima al Salone del libro di Torino domani alle ore 17 (Sala Rossa) nel convegno “Aldo Moro, fine di un mistero?”.
Si è vociferato per anni che papa Paolo VI aveva tentato in ogni modo di salvare lo statista Dc anche pagando un’ingente somma alle Brigate Rosse. Si è parlato di una cifra pari a 50 miliardi di vecchie lire messa a disposizione dallo Ior. Invece non fu così. Sappiamo come andò solo da qualche mese. Da quando cioè il 4 dicembre 2017 monsignor Fabio Fabbri, che fino al 1999 è stato il vice ispettore dei cappellani delle carceri italiane, braccio destro dell’uomo che per il Vaticano e il Papa gestì le trattative con le Brigate Rosse, cioè il capo dei cappellani delle carceri don Cesare Curioni (deceduto nel 1996), ha testimoniato davanti alla Commissione Moro 2. «I soldi recavano la fascetta di una banca estera, precisamente israeliana, di Tel Aviv» – ha detto Fabbri [...]. In base agli accertamenti della Commissione Moro 2, chi mise a disposizione del Papa e della Santa Sede la somma del riscatto per ottenere la salvezza di Moro, era un uomo d’affari israeliano di origini francesi Shmuel «Sammy» Flatto-Sharon, che all’epoca del sequestro era membro della Knesset dove rimase parlamentare fino al 1981. Richiesto di confermare l’identità dell’uomo, dopo i riscontri ottenuti indipendentemente dall’organismo parlamentare, Fabbri lo ha fatto. «Visto che mi viene fatto il nome di Flatto-Sharon posso dire che il suo nome mi suona in relazione a questa vicenda. Non ho la minima idea di dove sia finito quel denaro dopo il fallimento della trattativa. Lo vidi comunque due o tre giorni prima della morte dell’onorevole Moro». Quindi il danaro per pagare il riscatto in cambio della vita di Moro era pronto. Era nella villa pontificia di Castel Gandolfo, a disposizione di Paolo VI, il papa amico di Moro. Già il 19 febbraio 2015 la vicenda era riemersa durante un’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, proprio grazie alla testimonianza di Fabbri. Ma è solo con il lavoro della Commissione che si è giunti, da poco, a fissare i fatti certi. Comprovati anche da altri testimoni [...].
A fine aprile del 1978 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti nei suoi Diari (quelli pubblicati, da Rizzoli nel 1981) annotava, con riferimento a monsignor Macchi: «Monsignore assicura che continueranno nella ricerca» nonostante si fosse compreso che le Br «non vogliono intermediazioni né denaro», ma il 5 maggio coglieva l’occasione di puntualizzare: «Se fosse questione di denaro, sia noi che il Vaticano saremmo all'altezza », adombrando quindi la possibilità di un intervento anche del governo italiano. Fu allora che Andreotti riferiva la circostanza che un deputato israeliano aveva pubblicamente offerto dei soldi per la liberazione di Moro e che Macchi gli aveva chiesto «approfondimenti » in merito alla proposta. Per quanto concerne il pagamento di un riscatto, Andreotti, consultata la maggioranza, diede, all'inizio di aprile, l’assenso del governo. Che nella residenza estiva del Papa si fossero tenuti nella primavera del 1978 incontri riservati riguardanti il sequestro, lo dimostrano decine di evidenze, tra intercettazioni telefoniche e testimonianze, rimaste segrete o riservate fino a tempi recenti. Sulle riunioni svoltesi a Castel Gandolfo, subito dopo la fine del sequestro di Moro, scese una coltre di assoluto riserbo pubblico, che solo da poco è andata diradandosi [...]. Un altro tema che ha sollevato interrogativi mai risolti è quello che concerne i rapporti, nei giorni del sequestro, tra la famiglia Moro e i carcerieri, l’esistenza cioè di un «canale di ritorno» che consentisse a Moro di ricevere lettere dalla famiglia e al prigioniero di rispondere, coinvolgendo anche altri interlocutori, e anche la possibilità che durante la prigionia lo statista avesse ricevuto la visita di un sacerdote appartenente all'ambiente ecclesiastico che egli frequentava.
Senza qui ripercorrere il considerevole numero di atti giudiziari e la vasta pubblicistica che ha cercato di rispondere a questi interrogativi, si può affermare che il lavoro della Commissione ha consentito, forse per la prima volta, di acquisire un fatto concreto in merito alla visita ricevuta dal prigioniero, già evocata – come personale riflessione – da Francesco Cossiga in più dichiarazioni. A fornire questa informazione è un brigatista coinvolto in numerosi gravi episodi e divenuto dopo il suo arresto, all’inizio degli anni ’80, collaboratore di giustizia. Nel corso di un colloquio informale con un consulente della Commissione Moro 2, il 28 dicembre 2016 l’ex brigatista ha fatto in proposito affermazioni esplicite. Risulta quindi confermato che Moro ha effettivamente ricevuto la visita di un sacerdote nel periodo della sua prigionia.
Dopo contatti tra Sereno Freato, rappresentante della famiglia, ed emissari dei brigatisti, il sacerdote era stato prelevato dai brigatisti in un luogo convenuto e condotto nel covo, dopo che gli erano stati fatti indossare occhiali con lenti schermate affinché non vedesse dove veniva portato ma nel contempo sembrasse un comune sacerdote in visita. Si era trattenuto con l’ostaggio per circa un quarto d’ora e lo aveva confessato. La visita era avvenuta in una fase del sequestro in cui vi erano ancora speranze di ottenere la liberazione e quindi era stata una visita di conforto, ma non l’ultima a un morituro. Era stato Mario Moretti a decidere autonomamente che tale incontro potesse avvenire, senza coinvolgere nella decisione la direzione strategica. La famiglia Moro era al corrente di quanto era avvenuto, essendo stata informata da Morucci e Faranda, ma non ha mai voluto rivelarlo. L’ex brigatista ha inoltre dichiarato che era stato preparato un secondo covo per il giorno del sequestro, qualora il primo per qualsiasi incidente o ragione non fosse stato utilizzabile. Questo rifugio era gestito da una ragazza. La vicenda di Moro non fu per Paolo VI solo una tragedia ufficiale e politica, ma anche umana e personale. Un dramma destinato ad accelerare la decadenza psicofisica del Pontefice che morirà il 6 agosto 1978 proprio a Castel Gandolfo, la villa pontificia segnata da quella sciagura. E nell’ottobre 2018, quarant’anni dopo, sarà proclamato santo.