Attualità

Verso le elezioni europee. Monti: «Gli Stati fermino il populismo»

Giovanni Grasso sabato 17 maggio 2014
«Il populismo è un fenomeno preoccupante e in crescita», ma forse ancora più preoccupanti «sono quei politici che a casa loro fanno la faccia feroce contro l’Europa e poi quando superano i confini nazionali ammutoliscono improvvisamente, perché non sanno che dire». Mario Monti, già commissario europeo e presidente del Consiglio, conduce da tempo la sua battaglia di verità sull’Unione Europea. E non fa sconti a nessuno: «La politica economica europea – spiega – deve essere cambiata, servono investimenti per il rilancio dell’economia, ma questo non significa che possiamo tornare al tempo della spesa allegra». Presidente Monti, i sondaggi per le elezioni europee prevedono una crescita dei partiti euroscettici e anche anti integrazione. Chi ne ha colpa? Il fenomeno è sicuramente in crescita e preoccupante. Quanto alla responsabilità direi che è diffusa. C’è una componente generale direi quasi inevitabile, poi ci sono le colpe dei singoli Stati e, infine, delle istituzioni europee.Cosa intende quando parla di componente generale?In tutti i Paesi di democrazia avanzata, la politica si sta sempre più orientando al breve termine, al piccolo risultato a portata di mano. La velocità e la rapidità dei media impongono di parlare per slogan di trenta secondi e impediscono di fare ragionamenti. E così mentre i problemi del mondo diventano sempre più complessi e richiedono soluzioni a lungo periodo, la politica si appiattisce nel piccolo orizzonte elettorale e lancia messaggi semplificati, ben sapendo che con questi non si risolvono i problemi.E perché il populismo fa così tanta presa?Molti dei problemi in cui ci dibattiamo nascono dalla globalizzazione, che è un fenomeno inevitabile. Il populismo usa messaggi molto semplificati. Ci sono le migrazioni? Chiudiamo le frontiere. C’è la concorrenza internazionale? Torniamo al protezionismo. In tutta la storia dell’umanità le risposte di chiusura, dettate dalla paura, sono le più semplici da veicolare, ma anche quelle che non risolvono, anzi aggravano i problemi: i populismi si rivolgono al popolo, accarezzano i suoi istinti, ottengono il suo consenso, lo usano per fare o appoggiare politiche che presto si ritorcono contro il popolo. L’abbiamo visto tante volte nella storia ; con particolare evidenza e gravità negli anni Trenta del secolo scorso. Ben più difficile è far passare il messaggio dell’integrazione. I problemi che denunciano i populisti non sono inventati. È la risposta che deve essere diversa: in termini di coordinamento internazionale, di integrazione europea, di solidarietà, di responsabilità. Ma queste risposte sono più difficili da spiegare. E non fanno certo scattare l’applauso, quando la gente tende a reagire sempre più visceralmente.L’Europa sconta anche la propria divisione politica?Sicuramente. Pensiamo agli Stati Uniti: anche lì i messaggi - pensiamo ai tea party - sono talmente semplificati da rendere difficili le più importanti decisioni politiche, come l’approvazione del bilancio pubblico. Ma gli Usa sono già uno Stato federale. In Europa l’integrazione è a metà del guado; l’integrazione politica, poi, è ancora quasi tutta da costruire. Serve pertanto una grande opera pedagogica e servono politici che abbiano davvero a cuore gli interessi dei cittadini e non solo la vittoria elettorale a breve scadenza.La gente ormai pensa però che i sacrifici non portino a nulla...Schroeder in Germania ha preso misure impopolari che hanno fatto perdere il suo partito alle elezioni. Ma la sua "Agenda 2010" ha reso più forte e competitiva l’economia tedesca, come ha riconosciuto anche Angela Merkel.Lei ha parlato di responsabilità dei singoli Stati nella formazione del populismo in Europa. Ci spiega?L’Ue è stata costruita in modo che le decisioni più importanti non vengano prese dalla Commissione, che è l’organo propriamente europeo, ma dal Consiglio, dove sono rappresentati i governi nazionali. E da parte di questi ultimi c’è stato sempre più uno scaricabarile nei confronti di Bruxelles. I governanti trovano comodo e utile elettoralmente scaricare la responsabilità di misure impopolari sull’Europa. Come ha detto recentemente Barroso non si può criticare per sei giorni alla settimana l’Ue e poi aspettarsi che il settimo giorno, quando ci sono le elezioni o un referendum, i cittadini vadano a votare a favore dell’ UE.Cosa si può fare per ridurre questo fenomeno?Credo che uno degli impegni che si dovranno prendere dopo le elezioni sarà un nuovo codice di comportamento sull’atteggiamento e anche di linguaggio che i politici nazionali dovranno tenere nei confronti dell’Ue.Le istituzioni comunitarie hanno fatto fino in fondo il loro lavoro?Anche l’Europa, intesa come istituzioni comunitarie, ha le sue responsabilità. Non è riuscita a tenere il passo di fronte alle nuove esigenze e doveva dimostrare di essere più efficace. Ma soprattutto non ha saputo spiegare, comunicare, raccontare il proprio ruolo, la propria funzione, la propria importanza.L’America sembra fuori dalla crisi, l’Europa stenta. Perché?Intanto l’euro non ha ancora il ruolo del dollaro, che è la principale valuta di riserva: l’America può scaricare maggiormente sul resto del mondo certi effetti negativi  delle loro politiche di quanto possa fare l’Europa. Ma, a differenza degli Stati Uniti, noi paghiamo il costo economico della mancata unione politica. Per l’economia americana possono contare poco gli eventuali squilibri tra uno Stato e l’altro. In Europa invece un forte disavanzo nazionale si ripercuote sugli altri Paesi. Per questo l’impianto dell’economia europea va sicuramente rivisto.Anche lei dice basta con il rigore?Quello che ho detto non significa che sono favorevole ad allentare i vincoli di bilancio o a violarli. Il bilancio pubblico tendenzialmente in pareggio sull’arco del ciclo economico  non è un vincolo voluto dalla Germania o dall’Ue, ma è un principio di buona economia.La politica del pareggio, sostengono gli eurocritici, ha fatto aumentare la disoccupazione…La disoccupazione di oggi in Italia non dipende dall’Europa, ma affonda le radici negli anni Settanta e Ottanta, dall’enorme debito pubblico accumulato quando i vincoli europei non esistevano. I politici pensavano soprattutto a vincere le elezioni, non controllavano la spesa, non la compensavano con le entrate, ma scaricavano gli effetti della loro cattiva politica, attraverso il disavanzo e il debito, sulle generazioni future. La conseguenza è che l’Italia di oggi è paralizzata dall’enorme debito pubblico. Chi sostiene che per uscire dalla stagnazione bisogna ricominciare a accumulare debito pubblico non fa altro che ricreare quel circolo vizioso a scapito delle generazioni future.Tra il rigore e il sostegno allo sviluppo non c’è una via mediana?L’unico sostegno che il bilancio pubblico può dare allo sviluppo, se vogliamo che questo sia durevole, non effimero, consiste nel permettere un certo disavanzo purché esso non ecceda la spesa pubblica per investimenti, veri e seri, che agevolino la crescita. Già quando nel 1997 la Commissione, di cui facevo parte, ha costituito il patto di stabilità, avevo sostenuto la tesi che un certo disavanzo dovesse essere consentito, ma in misura non superiore agli investimenti pubblici. Per molti anni, questa idea ha trovato l’opposizione della Germania, della Bce, ma perfino della Francia. Eppure, se uno Stato prende a prestito a un certo tasso di interesse e con tali prestiti fa investimenti che fanno crescere l’economia e, in questo modo, anche le entrate fiscali, direi che non  si può parlare di finanza spericolata ma anzi di un ragionevole principio di sana economia. Poi c’è il grande problema della capacità fiscale dell’Unione e delle risorse proprie. Non si può accusare l’Ue di non essere capace di stabilizzare il ciclo e di rilanciare la crescita se poi il bilancio a disposizione delle istituzioni europee è solo pari all’1 per cento del Pil.Lei è stato chiamato a presiedere un gruppo di lavoro dell’Ue proprio per fare proposte su "risorse proprie" di cui l’Ue dovrebbe disporre in futuro. Ha già qualche idea? Abbiamo iniziato i lavori. Il tema, di grande delicatezza politica, è tra i più controversi. Il gruppo che mi è stato chiesto di presiedere è di grande qualità e ho la fortuna di avere un buon dialogo con i diversi gruppi politici del Parlamento europeo e con i 28 governi nazionali. Non voglio avventurarmi in dichiarazioni premature. Ma sono fiducioso che potremo dare un contributo utile su una delle questioni chiave per il futuro dell’Europa.Se le elezioni si risolveranno in un successo delle liste anti-europa, pensa che si andrà alla grande coalizione Ppe-Pse?Se si confermerà la crescita dei partiti euroscettici sarà probabile, se non addirittura auspicabile, che le grandi famiglie europeiste diano vita a una larga coalizione per il governo dell’Europa. Del resto, quando in un Paese ci sono problemi gravi la cosa migliore è lavorare insieme, come di tanto in tanto fa la Germania e come abbiamo fatto noi in Italia in un momento drammatico, apertosi nell’estate 2011 e non ancora del tutto superato. Qual è il limite della classe politica italiana nei confronti dell’Europa?Limiti gravi di conoscenza e complessi di inferiorità (a volte ingiustificati) che coesistono spesso con propositi velleitari («picchiare i pugni sul tavolo», «rovesciare il tavolo» e simili) declamati ad uso domestico da personaggi che, varcate le Alpi, sono presi da improvvisa afasia. Questi sono i limiti, abbastanza diffusi. Per fortuna, l’Italia ha espresso in passato ed esprime ancor oggi  personalità politiche – citerò solo il presidente Napolitano –  che in Europa godono di grande rispetto. C’è anche, naturalmente, un fronte ostile all’integrazione europea, con populismi già maturi di età (Lega) o più recenti (Movimento 5 Stelle) o recentissimi, come Forza Italia, che tuttora fa parte - forse per distrazione - di una famiglia europea, il Ppe, da sempre europeista.