Dalla parte dei piccoli. Minori e fragilità, la grande svolta verso una legge quadro
Cosa c’è in comune tra la morte di Luigi Caiafa, il ragazzo 17enne di Napoli morto qualche giorno fa mentre stava rapinando un’auto con a bordo alcuni coetanei, colpito dal proiettile esploso da un poliziotto, e le storie, diversissime e drammatiche, dei 23 minori che ogni giorno vengono allontanati dalle loro famiglie in seguito a un provvedimento dell’autorità giudiziaria? Niente, sembrerebbe.
Ma non è così. Luigi e gli tutti gli altri finiscono in circa metà dei casi, in una struttura d’accoglienza per minori. Definizione generica che identifica realtà diverse da regione a regione, con denominazioni diverse, protocolli diversi, personale che ha seguito percorsi di formazione diversi, con controlli che dovrebbero toccare alle procure minorili o alle aziende sanitarie locali ma che, nella maggior parte dei casi, sono episodici e non approfonditi.
Né il ministero della giustizia, né quello del lavoro e delle politiche sociali, né quello della famiglia sanno con precisione quante sono e come operano le strutture d’accoglienza per minori nelle varie regioni italiane. La stima - perché solo di questo si tratta - parla di circa 3mila comunità, secondo i dati diffusi dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e relativi al 2015.
La stessa garante, nell’ultima relazione al Parlamento, ha ammesso però che si tratta di dati incerti perché non tutte le procure hanno risposto e poi perché è difficile raccogliere informazioni quando non si sa bene cosa e come cercare, visto che ogni regione segue, come detto, percorsi e nomi diversi.
Un’anarchia istituzionale che non fa bene a nessuno, né ai minori, né alle famiglie, né agli operatori, né ai giudici minorili. Perché di fronte al caos anche le professionalità migliori, che esistono, finiscono per essere represse e mortificate. Ecco perché la storia di Luigi, a cui era stato concesso un percorso per la 'messa alla prova', accompagnato dagli educatori di una comunità, e quelle degli altri ottomila minori che ogni anno vengono allontanati dalle proprie famiglie, segnano pur in modi diversi il fallimento del nostro sistema di tutela dei minori fuori famiglia. Ne abbiamo parlato molto spesso in questi anni, soprattutto dopo l’esplosione del caso Bibbiano.
Ma ora il ripetersi di episodi dolorosi impone una riflessione urgente e seria. Un osservatore dell’esperienza di Tonino Cantelmi, presidente dell’associazione degli psichiatri e degli psicologi cattolici, ha sottolineato che questo ragazzo è rimasto vittima di un sistema, «che pur avendo individuato il disagio del ragazzo, non è stato in grado di aiutarlo». Nessuna volontà di puntare il dito contro operatori sociali e servizi, ma insiste Cantelmi, «facciamola una riflessione: questi strumenti, almeno in contesti così problematici, non funzionano. Credo che un dibattito vada aperto su questo tema, con serenità e pacatezza».
Strutture d'accoglienza per minori, il grande enigma
Strutture d’accoglienza per minori. Il grande enigma del nostro Stato sociale. Ogni tanto i riflettori della cronaca o le indagini della politica cercano di far chiarezza su un sistema su cui gravano troppi interrogativi. Tanti sforzi, finora inutili. Quelle 300 e più realtà, per decenni ignorate dalle istituzioni, sono ora al centro di varie iniziative politiche.
A fine luglio, su proposta di Stefania Ascari (M5S) è stata votata la legge per istituire una Commissione d’inchiesta parlamentare proprio su questo problema. Mentre è in corso un’altra Commissione d’inchiesta, quella sui femminicidi, presieduta da Valeria Valente, che ha messo insieme 572 fascicoli contestati, in cui la violenza contro le donne si intreccia inevitabilmente a quella sui minori, con scelte di allontanamento molto spesso considerate inaccettabili dai genitori. E con troppi bambini che, ancora una volta, finiscono appunto nelle strutture d’accoglienza senza un progetto condiviso tra famiglie e servizi. L’una e l’altra sono iniziative importanti ma che rischiano di essere settoriali, perché impegnate in ambiti d’indagine che fotografano solo una parte della realtà, dimenticando tutte le altre ombre del problema.
Ecco perché, nell’ambito dell’Osservatorio nazionale sull’infanzia e sull’adolescenza, che il ministro per la famiglia, Elena Bonetti, ha riavviato ad aprile di quest’anno, uno dei gruppi attualmente operativi è impegnato in un progetto ambizioso: implementare le Linee di indirizzo del Ministero del lavoro sull’affi-damento familiare (2012), l’accoglienza in comunità e l’intervento con bambini e famiglie in situazione di vulnerabilità (2017) per arrivare a una legge quadro su tutta la materia.
Un riordino profondo del welfare per i minori, dei servizi, delle strutture d’accoglienza, degli interventi dell’autorità giudiziaria (ambito sterminato), degli aspetti – fondamentali – legati alla formazione degli operatori. Tutto strettamente collegato.
Non si può pensare di intervenire su un settore ignorando tutti gli altri. A coordinare l’iniziativa è Paola Milani, docente di pedagogia all’Università di Padova, da anni impegnata ad approfondire questa emergenza drammatica, che dal 2011 guida il Laboratorio di ricerca e intervento in educazione familiare dello stesso ateneo da cui è nato il progetto sperimentale 'Pippi' (ne parliamo qui sotto).
«Dobbiamo arrivare a una legge quadro che – spiega Milani – ci metta alla pari con il resto del mondo. Noi siamo gli unici, fra i grandi Paesi europei, a non disporre di una norma che chiarisca chi fa cosa e come per quanto riguarda i minori in difficoltà. Poi, all’interno di questa legge, le Regioni potranno intervenire secondo quell’autonomia prevista dalla legge».
Il primo criterio indicato dagli esperti è quello dell’uniformità di intervento. «Oggi purtroppo – riprende l’esperta – questo non avviene. Facciamo un esempio. Quando i servizi sociali sono chiamati a intervenire per aiutare un minore in difficoltà, devono valutare, spesso in tempi molto brevi, quale misura adottare. E cioè decidere se in quella determinata circostanza c’è davvero 'pregiudizio per i bambini', cioè un reale pericolo, se è opportuno procedere all’allontanamento o scegliere altri percorsi. Ecco, oggi, rispetto al modo di costruire questa valutazione, abbiamo tante ottime esperienze ma, purtroppo, non parametri comuni basati su evidenze scientifiche riconosciute a livello internazionale ».
Altri aspetti considerati fondamentali sono quelli della formazione e degli organici. La legge prevede la presenza di un assistente sociale ogni 5mila abitanti. «Ma questo – osserva ancora la docente – secondo la legge sul reddito di cittadinanza, vale solo per l’area della povertà. Per i minori non è ancora così». Decisivo lo snodo della formazione. Oggi un assistente sociale, dopo la laurea triennale, viene abilitato alla professione per l’incarico 'junior', mentre per accedere alle funzioni di 'coordinatore' serve la specialistica.
«Eppure – fa notare ancora la pedagogista – né il corso di laurea per assistenti sociali, né quello in scienze della formazione, prevedono una preparazione specifica per operare nell’area della protezione e della tutela dei minori e, nello specifico, all’interno delle comunità d’accoglienza, con il risultato che in tante strutture operano come educatori anche laureati in psicologia e sociologia che non possono avere, evidentemente, competenze adeguate».
Una considerazione che ci fa capire i motivi di tanti fallimenti. In mancanza di norme specifiche e di percorsi formativi adeguati può succedere che in alcune comunità un ragazzo impegnato in un percorso di 'messa alla prova', magari con alle spalle vicende giudiziarie pesanti – è il caso di Luigi Caiafa – venga affidato a un educatore che si può occupare, per esempio, anche di un bambino di pochi anni allontanato a causa della conflittualità tra i genitori.
Problemi distanti anni luce, che richiederebbero professionalità diverse. Quasi sempre invece non è così. Qualche spiraglio di luce c’è. L’Università Bicocca di Milano sta avviando in quest’anno accademico un innovativo master per la formazione degli educatori di comunità per minori, tra i pochissimi esempi del settore. Per il resto, solo il deserto.
Tra le altre emergenze sul tavolo degli esperti dell’Osservatorio c’è quello del turnover degli operatori. Oggi, come detto, gli interventi degli enti pubblici rispondono a criteri diversissimi. La maggior parte dei Comuni sotto i 15mila abitanti affidano i servizi sociali a consorzi intercomunali. Altri, sempre per fare quadrare i bilanci, puntano su cooperative private. Troppo spesso gli incarichi ai professionisti sono temporanei, rendendo di fatto impossibile quella continuità di accompagnamento che rappresenta un valore fondamentale per l’intervento con i minori e le famiglie.
«Sullo sfondo – conclude Paola Milani – c’è l’urgenza di cambiare la mentalità secondo cui negli allontanamenti occorre escludere il ruolo della famiglia. Le linee guida di indirizzo del ministero per le politiche sociali sono chiare: si tratta di un intervento che deve colmare una difficoltà momentanea dei genitori, nella logica di integrare le loro competenze, piuttosto che depotenziarle, escludendoli dal progetto di intervento. Si tratta di un aiuto alla famiglia non contro la famiglia. Ma questo capita raramente, perché il sostegno alla genitorialità non è previsto da nessuna legge, nonostante esista una letteratura scientifica che lo definisca in modo chiarissimo come un fattore predittivo del buono sviluppo del bambino. Solo rinforzando le famiglie e le loro reti sociali si rinforzano i bambini».
Il progetto sperimentale Pippi. Aiutare i genitori, non allontanare i bambini
Come agire 'con' e 'per' i genitori costruendo azioni 'bentrattanti', dal punto di vista delle idee e da quello metodologico? La più ampia sperimentazione nel campo delle politiche sociali per i minori in difficoltà realizzata nell’ultimo decennio in Italia si chiama Pippi. (Programma di intervento per prevenire l’istituzionalizzazione), acronimo che rimanda anche alla simpatica testardaggine del personaggio creato dalla scrittrice svedese Astrid Lindgren, poi protagonista di una serie Tv nota in tutto il mondo.
Avviato nel 2011-2012 con l’adesione di dieci città metropolitane, il progetto è arrivato nel 2018-2019 a un’estensione di 250 ambiti territoriali e al coinvolgimento di 2.500 famiglie. Tanti i dati interessanti. Solo la metà dei bambini vive con entrambi i genitori (52%). Nel 42% dei casi è presente solo la madre. All’inizio dei progetto il 6% dei bambini viveva fuori dalle famiglie d’origine, presso strutture residenziali o in affido familiare. La maggior parte dei piccoli sostenuti dal progetto hanno tra i 6 e i 10 anni (54,4%), poi tra gli 11 e 13 (20%) e tra i 3 e i 5 (15,1%).
Il progetto ha permesso anche di stilare una tabella delle singole vulnerabilità familiari. Per la maggior parte delle famiglie il dramma più rilevante è rappresentato dalle condizioni economiche (66,4%). Seguono il disagio psicologico (62,1%), la conflittualità di coppia (44,6), l’assenza di uno o di entrambi i genitori (37,2), l’emarginazione sociale (36,8), l’abitazione (36,4), i comportamenti devianti (26), la disabilità (25), le dipendenze (17,6).
Quasi in fondo alla classifica i maltrattamenti (9,6) e gli abusi, o sospetti tali (3.3). Di fronte a un quadro così complesso a quali risultati si è approdati? Il miglioramento delle relazioni familiari e la riduzione della violenza domestica sono considerate 'statisticamente significative'. Complessivamente nel 54% dei casi si è notato 'un alleggerimento degli interventi' da parte dei servizi. Mentre nel 27,1 è stato necessario un 'rafforzamento'. Nel 7,6% l’accompagnamento si è concluso perché la situazione è migliorata, mentre in 5 casi su 100 la famiglia ha interrotto il progetto. Soltanto il 2% i bambini allontanati dalle famiglie. Insomma, un cambiamento piccolo ma realistico. I genitori possono essere aiutati a crescere con i loro figli. Ma occorre crederci.