Migrazioni. Un miliardo di euro per il "muro" italiano in Africa. Inefficace e brutale
Un fiume di soldi pubblici, italiani ed europei, per sbarrare le rotte migratorie in Africa e attrezzare polizie e milizie al contrasto e alla cattura dei migranti. Una fetta minore per progetti di cooperazione allo sviluppo, non sempre verificati nella loro l’efficacia. Briciole per gestire vie legali di ingresso. Tra il 2025 e il 2020 l’Italia ha stanziato 1 miliardo e 337 milioni di euro per azioni esterne di politica migratoria in 25 paesi africani, finalizzate a fermare i flussi in entrata. Il 70% per il contrasto, l’1,3% per gli ingressi legali. Politiche fortemente sbilanciate su un approccio securitario, che non solo risulta poco efficace, ma fortemente lesivo dei diritti delle persone.
È l’analisi che emerge dall’inchiesta di ActionAid, l’organizzazione internazionale impegnata nel contrasto della povertà e per lo sviluppo. Lo studio, intitolato The Big Wall (il grande muro) per la prima volta cerca di quantificare la spesa complessiva italiana per il contrasto all’immigrazione. Tra gennaio 2015 e novembre 2020 i ricercatori hanno rintracciato 317 linee di finanziamento gestite dall’Italia con fondi propri, 791 milioni, ed europei, altri 545.
Come sono stati spesi? La metà, 666 milioni per controllare le frontiere esterne, 142 per lottare contro il traffico di migranti, 64 per rimpatri. Poi 146 per sostenere gli stati partner, 194 per alternative economiche nei paesi africani, 92 per proteggere migranti e rifugiati, 14 per sensibilizzare sui rischi delle migrazione irregolari. Solo 15 per creare vie legali per raggiungere l’Italia.
«Ci sono satelliti, droni, navi, progetti di cooperazione, posti di polizia, voli di rimpatrio, centri di formazione. Sono mattoni di un muro invisibile ma tangibile – si legge nella ricerca di ActionAid - e spesso violento. Innalzato dal 2015 in poi, grazie a oltre un miliardo di denaro pubblico, con un unico obiettivo: azzerare quei movimenti via mare, dal Nord Africa all’Italia, che nel 2015 avevano fatto gridare alla crisi dei rifugiati». Un muro poco efficace, ma costosissimo. Nel quinquennio esaminato abbiamo speso 210 milioni di euro solo in Libia, dove sono documentate violenze sistematiche da parte delle milizie attrezzate con i soldi dei contribuenti italiani, e poi 99 in Niger, 57 in Sudan, 54 in Etiopia, 40 in Senegal, altrettanti in Tunisia. E decine e decine di milioni in altri 19 paesi africani. Il risultato? Almeno 13 mila morti affogati nella traversata, altri 523 mila arrivati via mare. Senza contare le migliaia di persone torturate e morte nei centri di detenzione libici.
Le scelte politiche in Libia, avviate dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, sono il caso più eclatante. «Si cercava un risultato immediato e si è perso di vista il quadro generale, sacrificando la pace sull’altare della lotta alle migrazioni, quando la Libia era in pezzi, nelle mani delle milizie che ci tenevano in ostaggio», è l’analisi dell’ex viceministro degli Esteri Mario Giro. L'attivista libica Marmwa Mohamed sottolinea che fondi e interventi «erogati senza nessuna reale clausola di rispetto dei diritti umani, hanno frammentato ancora di più il Paese, perché intercettati dalle stesse milizie che gestiscono sia il traffico dei migranti che i centri di detenzione, come quella di Abd el-Rahman al-Milad, noto come “al-Bija”».
Niente clausole sui diritti umani nei finanziamenti alla contrasto delle migrazioni irregolari, dunque. Ma nemmeno sull'effettiva riduzione delle partenze nei progetti di coooperazione allo sviluppo. In un singolo programma finalizzato alla riduzione della migrazione dall’Etiopia, ad esempio, da 19,8 milioni di euro, secondo i ricercatori non «appare nessun indicatore dei risultati attesi». Insomma, «si ammette implicitamente che non c’è modo di verificare che quell’obiettivo sia raggiunto. Che cioè il giovane formato per l’avvio di una microimpresa nella zona di Wollo, per esempio, sia un migrante in meno».
In tutto ciò manca il minimo tentativo di incidere sulle cause profonde e strutturali della povertà. Bram Fouws, direttore del Mixed migration center, sottolinea come in questa dispendiosa e disinvolta strategia italiana non si mettano mai in discussione, ad esempio, gli accordi internazionali per la pesca che danneggiano le comunità locali, né tantomeno quelli di accaparramento di terre da parte di speculatori (il landgrabbing delle multinazionali, ndr), di grandi opere o di corruzione e di vendita di armi, ma di una generica vulnerabilità economica e della scarsa stabilità degli stati.
Alzare muri dunque non arresta le migrazioni, sostiene la ricerca, ma le rende ingestibili e pericolose. Un esempio? Nel 2007 l’Italia emanò un Decreto flussi da 340 mila visti d’ingresso legali, per metà stagionali. Nessuno o quasi gridò all’«invasione». Dieci anni dopo quei visti per lavoro erano stati ridotti drasticamente a 30 mila, mentre dal Mediterraneo arrivarono 119 mila persone, un numero che sembrò spropositato, quando era circa un terzo del Decreto flussi di qualche anno prima. I demografi da anni ripetono che l’Italia in crisi di nascite ha bisogno di forze giovani. «Per decenni il Giappone ha avuto politiche migratorie molto restrittive – spiega Helen Dempster, economista del Center for global Development – ma negli ultimi anni si è reso conto che, con il suo tasso d’invecchiamento, presto non avrà più persone per svolgere lavori fondamentali, pagare le tasse e quindi finanziare le pensioni». E dall’aprile 2019 ha iniziato ad accettare domande di visto per lavoro, sperando di attirare 500 mila lavoratori stranieri. Qui l'inchiesta integrale Th Big Wall di ActionAid