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I sindaci. «Non portiamoli in Albania, i migranti si possono integrare col lavoro»

Diego Motta mercoledì 23 ottobre 2024

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Per trovare l’altra faccia del caso Albania, è sufficiente andare a Legnano, nell’Alto Milanese. Sessantamila abitanti in città, il triplo nel territorio circostante, una ricchezza creata da sempre grazie al contesto manifatturiero. «I migranti servirebbero qui, non nei centri costruiti in questi mesi al di là dell’Adriatico» esordisce subito il sindaco Lorenzo Radice, di centrosinistra. «Da anni, abbiamo imprenditori e commercianti che chiedono continuamente manodopera e non la trovano» spiega il primo cittadino. «Spostateli qui il prima possibile, trovando i canali giusti: è una questione economica, è una questione di sopravvivenza».

In fondo, è quello che i Comuni italiani chiedono da almeno un decennio, non soltanto ai tempi del governo Meloni: programmazione degli arrivi, accoglienza rapida ed efficace, inserimento dei più giovani, a partire dai minori stranieri, grazie all’apprendimento veloce della lingua. Soltanto qualche mese fa, l’Associazione nazionale dei Comuni italiani, l’Anci, per bocca della segretaria generale, Veronica Nicotra, segnalava durante la presentazione del rapporto Sai sul sistema d’accoglienza dei migranti, che «la strada da perseguire è quella di un rapporto ordinato tra Stato, Comuni e sindaci. Bisogna uscire da una logica di non stabilità dei flussi finanziari, delle regole e delle procedure - sottolineava -, stabilendo regole di ingaggio precise tra Prefetture e Comuni». Detto in altri termini: occorrono fondi certi per poter organizzare progetti e percorsi di presa in carico sul territorio. In Italia, non altrove.

Oltre le “sanatorie”

E il decreto flussi? È una parte importante delle politiche migratorie, ma ha un peso relativo. Perché pur avendo innalzato la quota degli ingressi degli immigrati in Italia a 450mila unità l’anno, di fatto pare essere stato concepito da un lato come “sanatoria” e regolarizzazione dell’esistente e dall’altro sembra essere in buona parte già stato assorbito, in termini numerici, dal nostro sistema produttivo. «Dobbiamo portare dentro il Paese nuovi lavoratori stranieri, per avere in tempi brevi manodopera qualificata - spiega Radice -. Anche le rappresentanze industriali lo dicono: costruiamo meccanismi per farli arrivare e poi immaginiamo percorsi di qualificazione».

Qualche centinaio di chilometri più a ovest, a La Spezia, si incontrano migliaia di persone straniere: tanti lavorano nei cantieri del centro ligure, 5mila hanno la cittadinanza italiana. Sono di provenienza bengalese, romena, albanese. «Avere un lavoro e conoscere la lingua italiana sono i principali fattori di integrazione» racconta il sindaco, Pierluigi Peracchini, di centrodestra. Peracchini vede una ratio importante nelle strutture progettate in Albania, «vogliono dare risposte più rapide a chi è in attesa di asilo, senza alcuna dispersione» spiega, ma è sulla sua comunità, sull’Italia che preferisce concentrarsi quando sostiene che «è giunto il momento di trovare soluzioni dignitose: casa e lavoro sono le priorità. E sono necessarie risorse, perché altrimenti saremmo nell’impossibilità concreta di affrontare un fenomeno come le migrazioni».

La voce che arriva da La Spezia è simile a quella di tante amministrazioni che chiedono stabilità nella gestione dei flussi, investimenti nella sicurezza con aumento del personale di polizia e percorsi di integrazione per chi ha un impiego. «Il caso dei minori stranieri non accompagnati è centrale, ma l’andamento dei loro arrivi è discontinuo, si va a ondate - riprende Peracchini -. I fondi per la presa in carico degli under 18 non mancano, ma va deciso il livello di accoglienza e chi lo deve gestire. Penso che ci si debba muovere a livello regionale o centrale, perché noi Comuni siamo troppo fragili economicamente per potercela cavare da soli».

Fondamentale è il sostegno delle scuole e dei centri per adulti, dove gli stranieri che non parlano l’italiano possono frequentare con profitto e fare i passi necessari nell’apprendimento della lingua. «Quando i percorsi funzionano - osserva il primo cittadino di Legnano - la gente non si accorge più di avere un vicino di casa che arriva da lontano. In città c’è un Cas, un Centro di accoglienza straordinaria, con 50 persone, avviato ai tempi dell’emergenza ucraina. Funziona grazie all’impegno di tutti, perché si fa rete. Poi, certo, l’ente gestore, che sia la Prefettura o il Comune, deve sapere quanto si spende e perché, ma questo viene dopo. Secondo me, bisogna ribaltare la prospettiva: siamo abituati a pensare che prima vengono controllo e sicurezza, poi l’integrazione. Se invece entrassimo nella logica che si portano qui innanzitutto persone in grado di inserirsi facilmente, tutto verrebbe di conseguenza. Se si integra bene, si genera sicurezza e c’è maggiore controllo sociale».

Il rischio “invisibili”

L’alternativa è restare inchiodati allo scenario attuale, più volte ricordato da tante organizzazioni umanitarie: migranti respinti nell’irregolarità, nascosti nelle periferie delle grandi città, vittime inconsapevoli del taglio di fondi nel sistema della micro-accoglienza. È successo e succede, da Nord a Sud, da Roma a Milano, dalle città del Sud fino addirittura al Trentino. «L’antidoto all’illegalità rimane il rispetto delle regole, per evitare di alimentare il traffico di esseri umani» ribadisce Peracchini. E le istituzioni? Nell’evocare la necessità di «programmare, per affrontare meglio i mesi di maggiore pressione al fine di assorbire i flussi migratori», l’Anci ha indicato anche due proposte operative. La prima: rendere il sistema Sai, quello dell’ospitalità diffusa, «più continuo e stabile, evitando di lasciare i Comuni della rete e i progetti in condizioni di incertezza, specie al momento delle scadenze contrattuali.

Sono accorgimenti tecnici che si possono trovare facilmente, se c’è la volontà politica, perché – sottolineava Nicotra - l’accoglienza è una funzione pubblica importante che va assolutamente regolata come ci indica la Costituzione». La seconda: per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati «la nostra idea è evitare troppe strade nell’accoglienza dei minori che pesano molto sui bilanci comunali. L’alleanza tra Prefetture e Comuni della rete Sai ci consentirà di creare un sistema binario di accoglienza, per un certo periodo di tempo a carico delle prime, mentre in seguito toccherà stabilmente ai Comuni della rete Sai».