Ricerca. Migranti nei grandi (e sovraffollati) centri: così cresce il disagio psichico
Un'immagine dalla "prigione" di Moria, in Grecia, prima dell'incendio che ha distrutto il campo
Non è con la fine delle sevizie che il dolore si spegne. “Le condizioni di vita precarie in grandi e sovraffollati centri di accoglienza, producono effetti negativi sulla salute mentale dei rifugiati e dei richiedenti asilo al pari delle violenze subite nei paesi di origine o lungo la rotta migratoria”. Lo conferma una ricerca di Medici per i Diritti Umani (Medu) pubblicata sull’International Journal of Social Psychiatry.
Si tratta della prima indagine “che dimostra in modo scientifico gli impatti negativi di uno specifico modello di accoglienza”. I ricercatori hanno seguito a lungo i pazienti provenienti dal Cara di Mineo, la struttura per richiedenti asilo inaugurata dal governo Berlusconi e dall’allora ministro dell’Interno della Lega, Roberto Maroni, divenuto “il prototipo dei mega centri nel nostro paese”, si legge nello studio. Il Cara era poi stato chiuso, dopo inchieste e scandali, per far posto a strutture più piccole e diffuse sul territorio. Il Cara, che aveva ospitato fino a 4mila persone contemporaneamente, è stato chiuso, ma i migranti allontanati non hanno potuto beneficiare dell’accoglienza diffusa nei progetti territoriali. COn il risultato che il disagio patito è spesso peggiorato.
Le persone seguite dai medici “presentavano un quadro clinico di disturbo da stress post-traumatico (Ptsd) significativamente più grave rispetto ai pazienti provenienti da centri di accoglienza di minori dimensioni. Questo aspetto è particolarmente rilevante in quanto rifugiati e richiedenti asilo sono sempre più ospitati in hotspot e centri di prima accoglienza enormi e sovraffollati, anche nei paesi occidentali ad alto reddito”. Il campo di Moria in Grecia, recentemente devastato da un drammatico incendio, è uno degli esempi. “Del resto, anche il nuovo patto per l’immigrazione e l’asilo appena presentato dalla Commissione europea rischia di alimentare proprio il modello dei grandi centri alle frontiere esterne dell’Unione europea”, lamentano gli estensori del report.
Nonostante le evidenze scientifiche, le ricadute negative sulla salute mentale dei profughi non sembrano essere prese in considerazione dalla politica. Nonostante si tratti di disagi che possono avere ricadute anche sulla sicurezza pubblica.
I richiedenti asilo (94% delle persone esaminate) e i rifugiati (6%) erano giunti in Italia da poco tempo (in media da 11 mesi) ed erano ospitati sia in centri di accoglienza di grandi dimensioni con oltre mille ospiti (16%) sia in centri medio piccoli con meno di mille ospiti (80%) che in altre piccole strutture di accoglienza (4%). La maggior parte dei pazienti proveniva dall’Africa occidentale (91%) mentre un minor numero proveniva dal Nord Africa (6%) e dal Corno d’Africa (3%).La gran parte di loro (91%) aveva raggiunto l’Italia attraversando il Sahara, transitando per la Libia e poi affrontando il Mediterraneo centrale con imbarcazioni di fortuna.
Tra i partecipanti alla ricerca, “il 79,5% presentava una probabile diagnosi di Ptsd. Studi precedenti hanno rilevato una prevalenza di PTSD nei gruppi di rifugiati di circa il 30%”.
Lo studio ha catalogato vari eventi con ricadute dirette sulla salute mentale. I pazienti erano stati esposti “a una media di 8 tipi di eventi traumatici (ma alcuni sono arrivati ad affrontare 18 eventi traumatici!), tra i quali tortura (82%), detenzione (68%), aggressioni fisiche (65%), aver assistito all’uccisione di una o più persone (51%), essere vicini alla morte (47%), rapimento (46%), violenza sessuale (18%) e molti altri ancora”. Tutti presentavano sintomi con ricadute comportamentali. Ma in particolare un gruppo manifestava “elevata probabilità di presentare tutti i sintomi (32%), vale a dire sintomi intrusivi e di evitamento, pensieri ed emozioni negativi, alterato arousal (insonnia, comportamento irritabile ed esplosione di rabbia, comportamenti autolesivi, difficoltà di concentrazione, persistente sensazione di essere in pericolo ecc.)”.
In altre parole un terzo dei migranti provenienti dai campi di prigionia libici necessiterebbe di un accompagnamento specialistici, con “approcci terapeutici più intensivi e prolungati”.
A dimostrazione di quanto sia stata miope e non priva di rischi la scelta di puntare su grandi centri, Medu sostiene che “vivere in grandi centri di accoglienza per richiedenti asilo (oltre 1.000 persone) piuttosto che in centri di piccole-medie dimensioni (meno di 1.000 persone) è stato associato a una maggiore probabilità di appartenere al gruppo con il quadro clinico più grave”.