Migranti. La mina Danimarca sull'accoglienza europea
Migranti lungo un'autostrada in Danimarca, in una foto d'archivio
Richiedenti asilo deportati in Paesi fuori dall’Europa. La Danimarca segna un’ulteriore, drastica tappa del suo pugno duro contro i migranti. Dopo la scelta di sgomberare dai «ghetti» delle sue città migranti «non occidentali» e la decisione di rimpatriare profughi in Siria perché ormai «sicura», ieri è arrivata la nuova legge sull’asilo approvata con 70 sì e 24 no in Parlamento. Una legge proposta dai socialdemocratici della premier Mette Frederiksen e sostenuta anche dai liberali di Vestre, ma anche dalla destra xenofoba. D’ora in poi chi vuole presentare domanda d’asilo in Danimarca, dovrà farlo al confine. A quel punto sarà «trasferito» in un Paese extra-Ue, dove dovrà attendere l’esito. Attenzione: anche in caso di responso positivo non potrà trasferirsi in Danimarca, ma dovrà restare nel Paese in cui è stato spedito, oppure essere inserito in un programma Onu per i profughi. «Se fai domanda di asilo in Danimarca – riassume Rasmus Stoklund, responsabile migrazione per il partito socialdemocratico – sai che sarai mandato in un Paese fuori dall’Europa, e per questo spero che la gente smetterà di chiedere asilo in Danimarca». Ancora più duro il ministro per l’immigrazione, Mattias Tesfaye (che pure ha un padre etiope), secondo il quale «l’attuale sistema di asilo è fallito, è inefficiente e ingiusto» e «sprechiamo tante risorse per persone che in realtà non hanno diritto alla protezione e poi dobbiamo rimpatriarli. Nel frattempo, ci costano 40mila euro l’anno a persona». Per la cronaca, il numero di richiedenti asilo nel Paese scandinavo di 5,8 milioni di abitanti è sceso dai 21mila del 2015 agli attuali 1.500.
Naturalmente, un conto è approvare la legge, un altro farla funzionare. Secondo il quotidiano Jyllands-Posten, il governo di Copenaghen ha avuto colloqui con Ruanda, Tunisia, Etiopia ed Egitto, senza però almeno per ora arrivare a un’intesa. Il più citato è il Ruanda, che già ospita 130mila profughi soprattutto dal Burundi e dal Congo, ma anche 500 trasferiti dai centri libici in base a un accordo con l’Onu. Inoltre il Paese africano ha appena siglato con la Danimarca un memorandum d’intesa per l’asilo e la migrazione, anche se il governo ruandese sottolinea che «ricevere richiedenti asilo dalla Danimarca non fa parte dell’accordo».
La legge danese ha provocato un’ondata di reazioni negative. Per l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), è «contraria ai principi della cooperazione internazionale in materia di rifugiati», e «rischia di avviare un effetto domino: altri Paesi in Europa e nelle regioni vicine esploreranno la possibilità di limitare la protezione dei rifugiati sul proprio suolo». Preoccupata pure Bruxelles, che teme anche un impatto sui già difficilissimi negoziati tra Stati membri sul suo Patto per la migrazione. La Commissione, ha dichiarato un portavoce, «condivide le preoccupazioni espresse dall’Unchr, sia sulla compatibilità degli obblighi internazionali della Danimarca, sia sul rischio di minare le fondamenta del sistema internazionale di protezione dei profughi», inoltre «la legge solleva interrogativi sia sull’accesso alle procedure di asilo, sia sull’effettivo accesso alla protezione. Non è possibile sotto le esistenti regole dell’Ue né in base alle proposte del Patto per la migrazione», il quale «è basato sul diritto d’asilo come diritto fondamentale nell’Ue». A complicare il quadro, una peculiarità giuridica: la Danimarca gode da Trattato Ue di un’eccezione che le permette di restare fuori dalla politica comune di Affari interni e migrazione, il che spunta le armi di Bruxelles. Aderisce però sia a Schengen, sia al Regolamento di Dublino sull’asilo, ma come accordi internazionali fuori dal quadro Ue. Rimane la carta Ue dei diritti fondamentali, vincolante anche per Copenaghen, che garantisce il diritto all’asilo. «La Commissione – dice ancora il portavoce – analizzerà la legge danese prima di intraprendere ulteriori azioni». I giuristi di Bruxelles avranno un bel da fare, intanto la Commissione punta al «dialogo politico».