Giornata del rifugiato. «Scappata dalla Siria in fiamme, vivo ancora nel limbo»
Aya Abu Daher, profuga dal 2015 in Danimarca. Vogliono rimandarla in Siria perché ora, dicono, «è un Paese sicuro»
Le erano serviti sei anni per tornare ad avere una vita e un’adolescenza normali, le è bastato un minuto, il tempo di scaricare la posta elettronica e leggere un’email, perché tutto andasse di nuovo in frantumi. Aya Abu Daher, 20 anni, il 30 marzo scorso si trovava fuori città con gli amici per le vacanze di Pasqua quando ha ricevuto un messaggio dalle autorità danesi. Le notificavano la scadenza del suo permesso di residenza nel Paese e, in sostanza, l’invito ad andarsene.
Arrivata in Danimarca nel 2015 a 14 anni, Aya si era lasciata alle spalle Damasco e la Siria in guerra, per attraversare Libano, Turchia e Grecia e percorrere la stessa rotta imboccata, quell’anno, da 850mila persone in fuga, attraverso Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria e Germania.
Per lei il viaggio si è concluso a Nyborg, Danimarca centrale. Da allora ci sono state la scuola e la lingua danese appresa davvero bene, poi un lavoro da cameriera durante gli studi. Ce ne parla al telefono all’uscita di una sessione d’esame che prelude, tra pochi giorni, al diploma.
Accolti come rifugiati sei anni fa, per i cittadini siriani nemmeno qui sembra esserci più pace: la Danimarca è diventata la prima nazione europea a revocare i loro permessi di soggiorno, insistendo sul fatto che alcune parti della Siria, come Damasco, siano ormai luoghi "sicuri" in cui tornare. «Anche mia madre e mio padre hanno ricevuto lo stesso messaggio, noi perché femmine, lui perché anziano. Su queste basi le autorità non ci considerano più in pericolo. Nessuna email è arrivata, invece, ai miei fratelli: non si può rimandarli indietro perché correrebbero rischi per avere evitato la leva militare».
Insieme a un’amica, Aya ha raccontato su Facebook quello che le sta capitando, raccogliendo migliaia di like e destando l’interesse di stampa e tv nazionali: «Non intendevo andare in tv, volevo solo che i danesi sapessero che la Siria non è un posto sicuro: l’esercito è ancora là ed è sempre lo stesso. Avevo dei sogni da realizzare qui in Danimarca, amici e piani per il futuro, che ora sono distrutti. E invece in Siria non ho nulla, solo cattivi ricordi, immagini di manifestazioni di protesta finite in sparatorie e bombardamenti».
Il limbo in cui Aya è stata ricacciata è il risultato di un pacchetto di leggi adottate nel 2019 e di provvedimenti che risalgono a quel 2015 di grandi movimenti ai confini europei. Due anni fa è stato approvato il cosiddetto "Paradigm Shift" ("Cambiamento di paradigma") con cui si è spostata l’attenzione dall’integrazione dei rifugiati al loro rimpatrio, una misura che – ha scritto l’Unhcr – «pone un’enfasi sproporzionata sulla temporaneità dell’asilo e rischia di destabilizzare persone con forti esigenze di protezione».
«Si è sviluppata l’idea che i profughi debbano restare qui solo temporaneamente e rientrare il prima possibile, un’idea nuova che non affonda le radici nella realtà, ma nelle viscere di certi politici e nelle veloci battute di esperti di comunicazione» ha scritto Michala Clante Bendixen, fondatrice della ong Refugees Welcome Danimarca. L’organizzazione chiede che siano aboliti sia il "Paradigm Shift" sia la particolare tipologia di asilo ideata nel 2015, un nuovo status di protezione più debole, da assegnare a chi non detiene uno specifico motivo individuale di asilo.
Questo profilo è stato utilizzato per donne, minori e anziani siriani e oggi più di 4.000 persone ne sarebbero titolari, fra cui 1.200 siriani di Damasco: sono questi i rifugiati che ora rischiano il ritiro dei permessi. Per chi riceve il diniego della proroga le opzioni sono due: «Accettare una somma di denaro e tornare in Siria o trasferirsi in un centro per rifugiati dove non è permesso lavorare né studiare, nessuno sa bene per quanto tempo», spiega la ragazza.
A inizio giugno Aya si è unita ai sit-in di protesta organizzati a supporto dei rifugiati a Copenaghen, di fronte al Parlamento. Intanto la sua famiglia si è rivolta a un avvocato. Tra pochi giorni terminerà gli esami e otterrà un diploma danese. Avrà quello, ma non un permesso valido per restare nel Paese.