Affido. «Mi ha chiamato papà. Allora ho capito: è mio figlio al cento per cento»
Quando io e mia moglie abbiamo deciso di intraprendere il percorso dell’affido, siamo stati sorpresi dalla comprensione e dalla flessibilità che abbiamo trovato nell’associazione che ci ha accompagnati. Ci hanno chiesto quali erano le nostre paure, quali situazioni ci avrebbero messo in crisi. Siamo stati ascoltati senza essere giudicati in alcun modo. Poi, un giorno, è arrivata la telefonata che ci ha cambiato la vita: c’era un bambino in cerca di una famiglia. La prima volta che abbiamo visto F. correva nel giardino di una comunità di minori, col cappellino calcato in testa.
Lo abbiamo visto di sfuggita: ce lo hanno presentato una settimana dopo. Aveva poco meno di cinque anni. Al primo incontro si avvicinava e ci sfuggiva, accennava a giocare con noi e scappava via. Non è passato neanche un mese e già era a casa nostra: il suo desiderio di avere una famiglia si era perfettamente rispecchiato nel nostro desiderio di accoglienza. F. ci ha cambiato la vita per sempre. La relazione con lui ha fatto emergere tutti i nostri limiti, impietosamente. Gli ideali che avevamo hanno dovuto fare i conti con la realtà. Ma, in tutto questo, abbiamo sperimentato che il bene è davvero più forte. Le persone a cui siamo più legati sono quelle che inevitabilmente feriamo di più, ma, misteriosamente, sono anche quelle a cui doniamo il meglio, che tirano fuori la parte più luminosa di noi. L’esperienza dell’affido non è per supereroi. I bambini non cercano famiglie perfette, ma famiglie accoglienti e serene, pur con tutte le loro fatiche.
Oggi F. ha 18 anni, ha un lavoro, è felice. Sono innumerevoli i ricordi che porto con me. Ne scelgo in particolare tre. Il primo risale a una sera di tanti anni fa. F. era arrivato a casa nostra da pochissimo. Avevamo trascorso un fine settimana molto bello. La sera F. andò a letto e io e mia moglie, dopo una fiaba, ci sdraiammo al suo fianco. Lui ci fissò, ci sorrise, disse: «Mamma, papà; mamma, papà». Ho sempre creduto che la paternità non è questione di sangue e di Dna, ma di amore e accoglienza, ma in quel momento, forse per la prima volta, lo percepii con una intensità assoluta. Era come se, chiamandomi papà, F. mi regalasse una nuova identità, come se tirasse fuori dal profondo qualcosa di nuovo, che improvvisamente sbocciava. Era mio figlio al cento per cento, me ne rendevo conto: un figlio che sentivo in ogni mia fibra. E quando sono nati gli altri due fratelli dalla pancia di mia moglie, li ho sempre percepiti come la seconda e il terzo figlio. Il secondo ricordo riguarda i bisnonni biologici di F., incontrati in un parco dopo pochi mesi dal suo arrivo a casa nostra. Giocarono un po’ con lui, presero un gelato.
Alla fine, al momento dei saluti, la bisnonna, che somigliava tantissimo a F., ci guardò negli occhi e ci disse: «Grazie perché accogliete il nostro bambino, ma, per favore, quando avrete altri figli, continuate a volergli bene sempre, come se fosse vostro. Continuate a prendervi cura di lui». Quella frase mi bucò l’anima. La porto ancora con me. Tante volte ho fallito con F., ho commesso mille errori con lui, ma a quella richiesta sono sempre stato fedele, e proverò a esserlo per sempre. L’ultimo ricordo è di pochi mesi fa: quando F. è diventato maggiorenne ha chiesto di restare in affido nella nostra famiglia fino ai ventun anni. Per questo un giudice onorario ci ha convocati: ha parlato lungamente con F., poi con i suoi assistenti sociali, persone meravigliose che non ci hanno mai fatti sentire soli, poi con noi. Alla fine ci ha ricevuti tutti insieme e, rivolgendosi a F., gli ha detto: « Nei primi anni la tua vita è stata difficile. Ma poi hai incontrato tante persone che ti hanno voluto bene. Sei stato molto fortunato». Questa frase mi ha commosso: mi ha ricordato che le cose non vanno mai come te le aspetti, ma che ciascuno può trovare la sua strada, pur tra limiti e fatiche. E questo vale non solo per i figli in affido: vale anche per i figli naturali e per tutte le persone nei confronti delle quali siamo chiamati a essere padri e madri, esercitando quella generatività di cui siamo capaci.