17/5/1973. 50 anni fa la bomba alla Questura di Milano: la "strategia della tensione"
Una donna ferita nell'attentato alla Questura di Milano
«Quell’attentato è un pezzo della nostra storia, della nostra vita. Eppure se ne parla poco. È lo spirito dei tempi. Oggi si consumano solo le cose che si comprendono facilmente. Quello invece è un fatto complesso, bisogna studiarci e ragionarci e questo oggi non va molto di moda». A sfogarsi è Guido Salvini, Gip a Milano, a lungo giudice istruttore sugli attentati neofascisti degli anni ’60-70, quella che viene definita «la strategia della tensione».
Come quello davanti alla Questura di Milano. Il 17 maggio del 1973, cinquanta anni fa, poco prima delle 11, una bomba a mano venne lanciata tra le persone che assistevano in via Fatebenefratelli alla cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi ucciso un anno prima. Ci furono 4 morti e 52 feriti. Venne subito bloccato il responsabile, Gianfranco Bertoli, che si definì anarchico individualista. In realtà era ben altro. A lungo rimase l’unico coinvolto, condannato definitivamente all’ergastolo.
Poi negli anni ’90 la riapertura delle indagini del giudice Salvini e dal pm Lombardi.
«La Cassazione - ricorda Salvini - il 13 ottobre 2005, scrive che è un fatto storico e processuale incontestabile la provenienza dell’attentato da esponenti del movimento neofascista Ordine nuovo che avevano utilizzato proprio Bertoli, al fine di mimetizzare la matrice dell’attentato e accreditare quella anarchica».
I feriti nell'attentato alla Questura di Milano - Fotogramma
Verità storica ma non giudiziaria, perché alcuni esponenti neofascisti veneti dopo la condanna all’ergastolo furono poi tutti assolti. Il lungo tempo certo non ha aiutato. Anche perché, ricorda il magistrato, «tante cose che abbiamo scoperto dopo 20 anni, erano già ampiamente note. Invece come per gli altri attentati, da piazza Fontana a Brescia, scattarono subito le protezioni dei responsabili».
Anche perché Bertoli era stato informatore del Sifar negli anni 50-60 e poi del Sid dal 1966 al 1971. «I documenti su di lui sono stati trovati mancanti di alcuni allegati. Per questo il generale Gianadelio Maletti, capo del reparto D (controspionaggio) del Sid venne incriminato. La sera stessa dell’attentato manda un suo uomo in Israele, dove Bertoli era stato dal 1971, a svolgere dell’attività per non far emergere chi fosse realmente, ma un estremista di sinistra». E «la tesi di Bertoli anarchico individualista ha molto tenuto, anche negli ambienti di sinistra. E anche questo ha ridotto il rischio che scattasse un’apertura di verità».
In carcere lo consideravano un elemento rispettabile anche se aveva fallito l’obiettivo. La bomba doveva uccidere il ministero dell’Interno, Mariano Rumor, presente alla cerimonia, “colpevole”, secondo i neofascisti di non aver dichiarato lo stato d’assedio dopo la bomba di piazza Fontana. «Con la sua morte si voleva far precipitare la situazione del Paese, ritentando quello che non era riuscito nel 1969». Il 7 aprile 1973 Nico Azzi, militante di Ordine Nuovo, era rimasto ferito nel maldestro tentativo di installare un ordigno sul treno Torino-Genova-Roma, dopo che si era fatto notare con una copia del giornale Lotta Continua in tasca, un’evidente azione di depistaggio.
I feriti nell'attentato alla Questura di Milano - Fotogramma
Il 12 aprile a Milano, nel corso di una manifestazione non autorizzata dell’Msi e del Fronte della gioventù, venne lanciata una bomba a mano che uccise l’agente Antonio Marino. «Nelle intercettazioni i neofascisti dicevano tra loro “non passa maggio e si fa”. Bertoli viene portato in una casa di Verona, la stessa dove venne preparato l’ordigno per Brescia. Lo tengono lì quasi un mese: addestramento psicologico e fisico. Era un uomo di confine, una persona che voleva fare qualcosa che restasse, un esaltato. Era perfetto sotto questo profilo».
Uscito dal carcere, morì il 17 dicembre 2000 per cause naturali, e non cambiò mai la sua versione. «Invece - conclude Salvini - i fatti dal 1968 al 1974 sul piano storico sono stati ampiamente ricostruiti. C’è una linearità da piazza Fontana, anzi dalle bombe precedenti, fino a Brescia, compresi i moti di Reggio Calabria, una città che non era più in mano allo Stato. Bisognerebbe avere la voglia di andare a rileggerli e raccontare».