Como. Il sequestro, la buca, la mafia: perché si torna a parlare di Cristina Mazzotti
Cristina Mazzotti
Quasi mezzo secolo dopo si apre oggi in Corte di Assise a Como il processo sul sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti, la diciottenne rapita a Eupilio (Como) il primo luglio 1975 mentre rientrava a casa da una festa con amici, morta durante la detenzione e il cui corpo fu abbandonato in una discarica di Galliate (Novara), dove fu trovato il primo settembre di quell’anno. Cristina Mazzotti nel luglio 1975 fu tenuta prigioniera in una buca scavata nel terreno e cementata della cascina Padreterno, nei pressi di Castelletto Ticino. Cristina fu letteralmente sepolta viva, tenuta segregata e costretta a stare in posizione distesa in una fossa lunga due metri e mezzo e larga un metro e 65, profonda un metro e mezzo e con un tubicino di plastica usato come impianto di aerazione. Le vennero somministrate dosi massicce di valium per sedarla; periodicamente i sequestratori la prelevavano di peso e la trasportavano fuori dalla buca al fine di mostrarla per chiedere il riscatto. La 18enne resistette 25 giorni. Il suo corpo senza vita, venne trasferito in agosto in una cava a Varallino, vicino a Galliate in provincia di Novara, quando la famiglia aveva già pagato il riscatto.
Fu il primo sequestro di una donna e furono condannati in 13. Venne infatti individuato il gruppo dei fiancheggiatori: carcerieri, centralinisti e i riciclatori del denaro del sequestro (il padre di Cristina Mazzotti pagò un miliardo e 50 milioni il giorno stesso in cui sua figlia morì). Ma i responsabili più importanti, gli uomini che l’avevano rapita, gli esecutori materiali, e i mandanti, affiliati alla ‘ndrangheta, rimasero impuniti.
La prima svolta è stata nel 2007, quando è stata identificata in banca dati l’impronta di Demetrio Latella, 70 anni, bandito reggino già legato alla banda del Tebano Epaminonda, trovata sul vetro della Mini Minor di Mazzotti. C’era lui tra i quattro uomini che la sera tra il 30 giugno e il 1° luglio 1975 bloccarono l’auto sulla quale la giovane viaggiava con due amici, dopo aver festeggiato la maturità – Carlo Galli ed Emanuela Luisari – obbligandola a scendere e a seguirli dopo essere stata incappucciata, per poi cederla alla banda dei basisti. Ed è stato lui a fare i nomi dei complici nella banda di esecutori materiali. La richiesta di riaprire il caso avvenne con un esposto dell’avvocato Fabio Repici, che assisteva i familiari del giudice Bruno Caccia, ucciso da un agguato di 'ndrangheta a Torino nel 1983, e dove risultò coinvolto sempre lo stesso Latella. L’avvocato dei Caccia intuì la responsabilità del bandito reggino anche nel caso Mazzotti e convinse i pm Alberto Nobili e Stefano Civardi a riavviare le indagini, affidandole alla squadra Mobile.
Per arrivare alla riapertura del processo occorrerà però attendere la sentenza della Cassazione che nel 2015 che ha indicato imprescrittibile il reato di omicidio volontario, giacché l’accusa di sequestro era finita in prescrizione. Oggi va alla sbarra con l’accusa di omicidio come conseguenza di sequestro di persona l’intero gruppo di dianziani boss calabresi: Giuseppe Morabito, il boss quasi ottantenne della ‘ndrangheta del Varesotto, Giuseppe Calabrò detto “U’ Dutturicchio”, 70 anni, Antonio Talia, 73 anni, precedenti per armi e droga, e lo stesso Demetrio Latella, 70 anni, reo confesso del sequestro.