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Il caso. I «no» di Meloni a Salvini. Cosa chiede la Lega su ballottaggi e terzo mandato

Marco Iasevoli giovedì 14 marzo 2024

Salvini, Meloni e Tajani

Più del nuovo round sul terzo mandato, finito con l’esito scontato della bocciatura da parte dell’Aula del Senato, a misurare il clima nella maggioranza è la sfida sullo stop al ballottaggio per i sindaci che superano il 40% al primo turno. Una proposta che i partiti di governo condividono, ma che ieri il governo e i gruppi di Fdi e Fi sono stati costretti a respingere e rinviare per non assecondare la fuga in avanti della Lega.

I DUE EMENDAMENTI

L'emendamento sul terzo mandato era stato già presentato e bocciato in Commissione. In sostanza, la Lega vorrebbe una deroga al limite di due mandati consecutivi oggi previsto per i presidenti delle Regioni e per i sindaci dei Comuni sopra i 15mila abitanti.

Anche la proposta sui ballottaggi riguarda i Comuni sopra i 15mila abitanti: in sostanza, se al primo turno un sindaco raccogliesse dal 40% in su dei voti, non ci sarebbe il secondo turno. Il ballottaggio, in sostanza, sarebbe un'opzione solo quando nessuno raggiunge la soglia del 40. Tra l'altro, questo potrebbe essere anche il modello di una futura legge elettorale nazionale.

LA STRATEGIA DELLA LEGA CHE CONVINCE SEMPRE MENO ANCHE I VERTICI DEL CARROCCIO​

Insomma per il Carroccio salviniano uscito malconcio da Sardegna e Abruzzo, e timoroso per la partita europea, ogni giorno è buono per pungere e avvertire gli alleati. E la voglia di distinguersi è a livelli così alti che ieri diversi senatori del Carroccio non erano al corrente del deposito dell’emendamento. A fatti compiuti, erano in fila per chiedere al capogruppo Massimiliano Romeo come mai la Lega sia andata a stuzzicare la maggioranza su una proposta che ha alte probabilità di passare, ma in un altro contesto. E Romeo, con pazienza, a spiegare una strategia che non convince tutti: mandare messaggi agli amministratori locali, compattarli per la vitale battaglia europea, evidenziare lo “strano patto” che emerge a puntate tra Fdi e Pd, tra Meloni e Schlein. Una strategia che però, appunto, non convince tutti, perché a fine giornata emergono solo rapporti lacerati tra i partner di governo.

SUL TERZO MANDATO TIENE IL "PATTO" MELONI-SCHLEIN

Andando per ordine. Terzo mandato. Era noto che la Lega avrebbe ripresentato in Aula l’emendamento al decreto Elezioni, bocciato in commissione Affari istituzionali. Il governo di nuovo se ne lava le mani e si rimette all’emiciclo. Il relatore del decreto, il meloniano Alberto Balboni, ribadisce il «no». Il verdetto è netto: in favore votano solo Lega e Iv, contro FdI, Fi, Pd, M5s e Avs. In numeri finisce 112 a 26 per i contrari. Ma sul terzo mandato la distanza politica dentro la maggioranza è già agli atti da tempo. Il «salva Zaia» (che poi sarebbe anche «salva De Luca», «salva Bonaccini»...) Salvini lo ritiene così urgente da provare a infilarlo in un decreto - approvato in serata con 79 sì, 39 no e 6 astenuti - che ha il fine di regolare le amministrative e le Europee di giugno. E mentre Forza Italia nemmeno ne vuole sentire parlare, Fratelli d’Italia promette, alla meglio, una generica riflessione in un testo di riforma degli enti locali.

È vero, come sostiene Italia viva (che lavora molto per De Luca), che tatticamente Pd e le opposizioni avrebbero potuto mettere in minoranza Giorgia Meloni votando a favore dell’emendamento. Ma il «no» della segretaria Elly Schlein al terzo mandato del governatore campano è quasi un punto programmatico del suo mandato politico. Insomma, Meloni - che vuole rimescolare le carte nelle Regioni a guida centrodestra - e la leader dem convergono in pieno. Dunque alla Lega, con Paolo Tosato, non resta che dire «teniamo il punto». Mentre il Pd bonacciniano resta alla finestra in attesa che, come pattuito, i senatori dem presentino un loro ordine del giorno “possibilista”.

LA TREGUA SERALE IN MAGGIORANZA

Sta di fatto che il voto sul terzo mandato scivola via come un “già visto”. È sulla fine del ballottaggio nei Comuni superiori ai 15mila abitanti che si scatena la baraonda. Preso atto della proposta, Schlein, mezzo Pd e M5s insorgono. Si parla di «truffa», «provocazione», «scempio democratico». Piovono gli appelli alla premier per intervenire. Filtra da Palazzo Chigi la seccatura per il blitz. La patata bollente resta tra le mani del relatore di Fdi Balboni, che indica una strada: ritirare l’emendamento e trasformarlo in ordine del giorno. La Lega accetta. Con Romeo che però fa la voce grossa: «La prossima volta andiamo fino in fondo». Fino in fondo su un dossier che Fdi e Fi condividono, è questo il paradosso. È chiaro che la strategia della tensione non piace ai due leader che sono usciti bene dall’Abruzzo, Meloni e Tajani, ma alla fine a tutti i partner di governo non resta che dire un’ovvietà: un voto su un emendamento non fa una crisi.

L'OMBRA DI ZAIA SU SALVINI

Il dubbio che resta è sino a che punto possa spingersi Salvini. Specie se le Europee, oltre a ridisegnare i rapporti dentro la coalizione, diventeranno anche un referendum sulla sua leadership nel Carroccio. Perché se al governatore veneto Zaia sarà negata per legge una nuova candidatura in Veneto (e sarebbe la quarta, in realtà, non la terza), diventerebbe lui il principale indiziato per la guida della Lega, in caso di risultato negativo del partito alle elezioni di giugno.