Meeting di Rimini. Alla ricerca dell’io perduto per vincere l’individualismo
Javier Prades
Quello di Javier Prades su "Il coraggio di dire io" non è stato un intervento, quanto una lectio magistralis, seguita senza fiatare da un auditorium gremito come ai vecchi tempi del Meeting. Il teologo, rettore dell’Università San Damaso di Madrid, ieri pomeriggio ha osservato il percorso filosofico e teologico della costruzione dell’io per come si è sviluppata sugli opposti fronti del razionalismo e del cristianesimo.
Se per la cultura ottocentesca e almeno fino alla post modernità, l’io si forgia nell’individuo, «abilitato alla ricerca di se stesso, orientato ad autoaffermarsi», nel nuovo secolo questa convinzione si sgretola e molti auspicano un netto superamento di un tal modo di concepire l’io. «Per molto tempo la parola d’ordine è stata quella di essere se stessi – ha spiegato infatti il teologo – e la strada per arrivare alla pienezza che ciascuno cerca sembrava consistere nell’essere autentici, anzi bisognava essere autoreferenziali». Oggi, al contrario, voci come quella di Massimo Recalcati esortano a «superare l’iodolatria e l’iocrazia che non possono portare a nulla se non alla follia narcisistica».
Per non dire, ovviamente, di Carron e Giussani, «che parlò di un effetto Chernobyl a proposito della personalità contemporanea incapace di uscire dal limite dell’io», come ha ricordato Prades.
La sostanza del discorso è che l’io cristiano abita un paese diverso dall’idea teorica della verità. «Kierkegaard individua il limite della speculazione astratta dalla vita reale – ha ricordato il teologo – e inquadra l’esigenza, posta propria dal pensiero cristiano, di far emergere la verità di un uomo vivo, in cui si forma l’io». Non è solo una contrapposizione, perché la formazione di questo io avviene quando esso «accoglie amorosamente la realtà e, in essa, Cristo presente».
Riflessioni apparentemente alte e che al contrario impattano direttamente sul Meeting e spiegano la “pervicacia” con cui il popolo di Comunione e Liberazione non rinuncia all’incontro e non si accontenta del pure dialogo. Ieri, Prades ha esaminato questa concezione dell’io a partire da numerosi riferimenti letterari e filosofici. Pirandello, ad esempio. Il drammaturgo siciliano, nel 1926, ha raffigurato la tragedia umana della solitudine attraverso il protagonista di "Uno, nessuno e centomila", il quale «sembra uscire vincitore perchè non si sente più costretto a essere qualcuno e può lasciarsi andare verso la dissoluzone del proprio io.
Quando manca un rapporto affidabile, ci si deve affidare alle apparenze o rinchiudersi nel solipsismo e proclamare: "Sono solo, in tutto il mondo solo, sento l’eternità e il gelo di questa infinita solitudine". Si tratta però di una condizione di incompiutezza, data dall’impossibilità ultima di essere qualcuno e quindi di poter dire "io" in modo significativo, che è tipica delle nostre società attuali».
Citazioni alte ma anche pop: «Bohemian Rapsody ci presenta una visione della vita, quella dei Queen, in cui "non c’è spazio per i perdenti" e la serie televisiva Euphoria evidenzia lo smarrimento dei più giovani, che vivono senza limiti e hanno realizzato il programma degli anni Ottanta, hanno provato tutto e si rendono conto dell’incapacità di essere ciò che avrebbero voluto essere». Nella filmografia discussa al Meeting non sono solo i giovani a risvegliarsi dal sogno antropocentrico, ma anche i loro padri (e i loro nonni) di Nomadland: «Personaggi che non si legano a nessuno, un mondo in cui non c’è traccia di Dio e l’autenticità porta a una vita avulsa da tutto ciò che rende l’io duraturo e fecondo» ha spiegato Prades.
L’alternativa a questo individualismo, presuntivamente trionfante eppure incapace di creare legami stabili, di appartenere a qualcuno e di generare un bene duraturo per sé e gli altri, va ricercata nel fondo di se stessi, come ha fatto Edith Stein, che svela il mistero dell’io, che riceve l’essere momento per momento, «un essere fugace e prorogato di attimo in attimo, ma che, malgrado la sua fugacità sostiene e infonde tranquillità e sicurezza».
L’autocoscienza che costruisce l’io cristiano, insegnava Von Balthasar, non proviene dalla meditazione ma dal donarsi a una realtà o a una persona e questa autocoscienza è approdata in Occidente attraverso la tradizione giudaico-cristiana che concepisce l’io attraverso la relazione. «Per poter dire io serve un rapporto – ha osservato il teologo –, serve un Tu con la maiuscola, il tu di Dio. L’io è generato da un rapporto cui abbandonarsi completamente». Come fece Abramo nel momento in cui Dio gli diede un nome, una identità e un popolo. «Ma la figura che meglio chiarisce cosa sia la consapevolezza dell’io è quella di Cristo – ha concluso Prades –. Gesù mette davanti agli occhi del mondo un io consapevole di sè; in tal senso la concezione dell’io di Edith Stein prende il via con Abramo e trova chiarimento con Gesù, il quale dice “io sono” come poteva dire solo il Dio dell’Antico Testamento. Con quell’io sono, Cristo rende riconoscibile il mistero trinitario».
Al termine di questo percorso si comprende dunque che l’alternativa alla solitudine non è il narcisismo novecentesco, ma l’accoglienza dell’altro, l’avvertire la responsabilità di altri, ricevere un nome e una identità che individuano un compito e che accompagnano l’abbraccio amoroso con l’altro. E, per tornare al tema, «il coraggio nasce dalla simpatia. Il "coraggio di dire io" passa dall’attaccamento affettivo, quella simpatia che rende possibile la responsabilità e che spiega il passaggio dalla figura del Figlio di Dio che dice "io" ai tanti uomini che oggi possono dirlo…»