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Coronavirus. I medici stranieri dimenticati dall'Italia, persino nell'emergenza

Fulvio Fulvi mercoledì 4 novembre 2020

Il primo paziente di coronavirus all'ospedale da campo degli alpini nella Fiera di Bergamo. L'emergenza è tornata e servono più medici e infermieri

Sono 75.500 i professionisti della sanità – medici, infermieri, operatori sociosanitari, tecnici di laboratorio – che vivono in Italia con un passaporto straniero. Secondo Amsi, l’Associazione dei medici stranieri in Italia che ha diffuso questi dati, lavorano soprattutto in strutture private come cooperative o Rsa, con contratti a termine o di semplice collaborazione nei servizi di base come le guardie mediche, i pronto soccorso o gli ambulatori dei distretti sanitari.

Tra di loro ci sono precari senza prospettive e con stipendi inadeguati. E tra i “camici bianchi” c’è anche chi sopravvive facendo sostituzioni di pochi mesi l’anno. L’esperienza e la bravura non contano, serve la carta d’identità firmata da un sindaco.

I mesi scorsi hanno visto il nostro Paese diventare teatro di missione, durante il picco della pandemia, per il personale sanitario proveniente dall’estero, da Paesi come Cuba e l’Albania, segno della solidarietà internazionale che ha abbracciato anche il nostro Paese. Ma si è trattato di volontari, chiamati a raccolta in una fase eccezionale. Nell’esercito degli “stranieri” che opera nel sistema sanitario italiano ci sono 22mila laureati in medicina (38mila, invece, gli infermieri), molti dei quali specializzati, che potrebbero entrare anche in pianta stabile nei reparti degli ospedali e nelle strutture sanitarie pubbliche contribuendo così a colmare le carenze di organico – in Italia, lo ricordiamo, mancano 56mila dottori – ma non possono partecipare ai concorsi perché non risultano cittadini italiani. In effetti, nel 2013 la legge che impediva agli stranieri di essere assunti dallo Stato è stata abolita ma il requisito dell’italianità d’anagrafe è rimasto per i ruoli da dirigente, come vengono considerati, appunto, i medici del settore pubblico.

E sebbene il Dpcm “Cura Italia” abbia derogato a questo impedimento autorizzando le Regioni, secondo una direttiva europea, ad assumere in via temporanea per tutto il periodo dell’emergenza Covid anche i dottori con laurea acquisita all’estero, di fatto questo non sta avvenendo, perché per la maggior parte, i bandi di concorso o degli “avvisi” non sono stati adeguati alla nuova normativa.

Non si riconoscono cioè titoli di studio e qualifiche professionali che non siano state conseguite entro i confini della Penisola. Il sistema sanitario nazionale viene così privato di risorse preziose nella lotta contro la pandemia. Ma c’è, comunque, chi la battaglia la porta avanti lo stesso, rischiando ogni giorno di contrarre il virus per rispettare il giuramento di Ippocrate, nella speranza che qualcosa cambi.

Kamel Khuri è un israeliano nato a Betlemme e laureato in medicina a Pavia. Ha 50 anni, una moglie e una figlia dodicenne. Abita a Mede, piccolo borgo della Lomellina, ma tutti i giorni deve recarsi a Vigevano, dove fa servizio nell’infermeria della casa di reclusione, o deve presentarsi nei Pronto soccorso dei sette ospedali dell’Azienda sociosanitaria pavese. «Ho un doppio lavoro ma sono un precario dal 2003, mi sposto tra Casorate Primo, Mortara, Stradella, Varzi, Voghera e negli altri centri del territorio – racconta – a seconda di dove mi mandano, ho un contratto che viene rinnovato dalla Asst anno dopo anno ma ogni volta, alla mia età, devo sostenere un esame davanti a una commissione: ormai sanno tutto di me, anche il numero di scarpe che porto, non capisco perché non c’è la possibilità di stabilizzare il mio rapporto di lavoro». All’inizio il dottor Khuri faceva la guardia medica ad Alessandria, poi, dopo quattro anni, ha fatto dei corsi di medicina d’emergenza e ha trovato lavoro nel carcere vigevanese: «Curo insieme ad altri colleghi tra i 70 e i 75 detenuti, più gli agenti penitenziari quando c’è bisogno».

Diverso è il caso di Rahamin Remi Koronel, 67 anni, residente a Milano dove dal 1998 fa il medico di base con specializzazione in ginecologia. Ha lo studio in via Gorizia, di fronte alla Darsena del Naviglio Grande. Koronel arrivò in Italia da Istanbul nel 1957 con i genitori e il fratello, esuli per scelta. Aveva 3 anni quando atterrò con la famiglia a Linate e da allora non ha mai lasciato il nostro Paese, che è diventato anche il suo. È cittadino italiano a tutti gli effetti.

Laureato a Milano, presa la specializzazione ha cominciato a lavorare all’Istituto nazionale dei tumori, precario per una decina d’anni. «Poi, visto che non riuscivo ad entrare con un contratto definitivo, sono venuto via e ho deciso di fare la libera professione». I sacrifici all’inizio non sono mancati, non c’erano gli agganci giusti per accedere nel settore pubblico, e forse neanche il cognome lo ha aiutato. Però poi, una volta aperto lo studio, ha fatto presto a guadagnarsi la fiducia dei pazienti. Perché un bravo medico si vede sul campo. «Deve essere valutato per le capacità e la voglia di fare – dice – e non per altre ragioni...». Oggi il dottor Koranel ha 1.250 assistiti e sta per andare in pensione. Adesso però c’è l’epidemia di Covid–19, «è un momento di fuoco, anche se la vera trincea la fanno i colleghi dei pronto soccorso».

Vista l’età, dovrebbe lasciare, ma deve seguire i suoi pazienti, non può abbandonarli, si fidano di lui e sarebbe come tradirli. Camice, stetoscopio, mascherina e orari massacranti in ambulatorio. «Anche se devo dire che da quando è scoppiata la pandemia vengono qui molto meno, più che altro telefonano o mandano un WhatsApp... “dottore, ho una brutta tosse”, “dottore ho la febbre...”, ma come faccio a curarli se non li vedo? Fare il medico è soprattutto un rapporto umano, e io, come gli altri miei colleghi italiani, mi sono ridotto a fare il prescrittore... c’è troppa burocrazia nella nostra professione, in Italia».