Attualità

Le indagini. Maxisequestro, colpo alla mafia

Alessandra Turrisi giovedì 9 luglio 2015
Avevano pensato di avvicinarsi alle associazioni antiracket e avevano anche denunciato estorsioni e intimidazioni, col solo scopo di "ripulire" la propria immagine e rifarsi una verginità. Ma non è bastato per ingannare gli investigatori, che, ritenendo una loro contiguità con il clan mafioso di Corleone, hanno inflitto a una famiglia di imprenditori edili del Palermitano uno dei sequestri di beni più pesanti della storia. La Direzione investigativa antimafia di Palermo, su provvedimento emesso dalla sezione misure di prevenzione del tribunale presieduta da Silvana Saguto, ha sequestrato immobili, conti correnti, imprese del valore di oltre un miliardo e 600 milioni ai fratelli Virga (Carmelo, Vincenzo, Anna, Francesco e Rosa, tutti fra i 66 e i 78 anni).Le complesse indagini economico-patrimoniali effettuate dagli investigatori della Dia d’intesa con il procuratore aggiunto Bernardo Petralia, hanno evidenziato come i Virga abbiano beneficiato negli anni del determinante appoggio di Cosa nostra per l’aggiudicazione di lavori e di appalti pubblici. Ritenuti appartenenti alla famiglia mafiosa di Marineo, legata al mandamento di Corleone, sarebbero riusciti nel tempo a sviluppare e a imporre il loro gruppo imprenditoriale anche attraverso il cosiddetto "metodo Siino", consistente nell’organizzazione di cartelli tra imprenditori per l’aggiudicazione "pilotata" degli appalti pubblici.La particolarità del sequestro sta nella storia recente di questa famiglia di imprenditori, che all’apparenza avrebbero rinnegato ogni appartenenza mafiosa decidendo di collaborare coi magistrati e denunciando richieste di pizzo. Gaetano Virga aveva presentato numerose denunce contro il racket delle estorsioni. Le sue testimonianze avevano consentito di arrestare cinque persone ritenute capimafia ed esattori di Misilmeri. Nell’operazione dei carabinieri finirono in manette Francesco Lo Gerfo, ritenuto il capomafia di Misilmeri, e Stefano Polizzi, presunto estorsore sul quale si sono concentrate le testimonianze, portò anche allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune di Misilmeri. Nel 2010, tra maggio e novembre, proprio Polizzi avrebbe chiesto il pizzo al cantiere edile di Virga minacciandolo. Ma per la Dia si sarebbe trattato solo di un paravento. Il capo operativo della Dia Riccardo Sciuto, ieri, ha spiegato come «avvicinarsi a organizzazioni antiracket o a un percorso di pseudo-collaborazione con la giustizia» sarebbe servito solo «per affrancarsi da quella situazione, per liberarsi dal fardello che si portavano appresso». Le indagini patrimoniali fatte dalla Dia e coordinate dal generale Nunzio Antonio Ferla hanno accertato che dietro alle imprese di Virga e dei suoi familiari ci sarebbe la mafia. E che proprio grazie a Cosa nostra gli imprenditori sarebbero riusciti ad aggiudicarsi decine di appalti, realizzando una escalation economica che ha consentito loro di accumulare una fortuna. Sotto sigilli sono finiti 33 aziende prevalentemente del settore calcestruzzi, 700 tra case, ville e immobili, 80 rapporti bancari, 40 assicurativi e oltre 40 mezzi. «È uno straordinario risultato», ha commentato il ministro dell’Interno Angelino Alfano.Mentre Addiopizzo ha subito chiarito che l’impresa non ha mai aderito all’associazione, per precisa scelta del comitato, che «aveva ritenuto non opportuno includere nella rete di consumo critico antiracket le società sopra citate. Tale scelta è stata compiuta in tempi non sospetti e nonostante gli operatori economici avessero sporto delle denunce per degli episodi estorsivi. Per alcuni di questi, successivamente accertati con condanne nei confronti di esponenti mafiosi, è stata data, tramite Libero Futuro, assistenza processuale. Nulla di più è stato fatto e soprattutto il protocollo di trattamento impiegato e seguito in stretto raccordo con organi investigativi e autorità giudiziaria non ha mai visto pubblicizzare tali storie, né tantomeno agli occhi dell’opinione pubblica, come simboli dell’antiracket o modelli di denuncia». Un terreno minato su cui si era mossa con sospetto anche la Fai, Federazione antiracket italiana, che puntualizza come "«’imprenditore oggetto di sequestro non fa parte di alcuna associazione antiracket aderente al movimento Fai».