Omertà. Messina Denaro, la sedia vuota al processo e spunta il terzo covo a Campobello
A Campobello di Mazara scoperto un altro covo di Matteo Messina Denaro
Nel linguaggio di Cosa nostra è un messaggio inequivocabile. Matteo Messina Denaro ha “marcato visita”, chiedendo e ottenendo in carcere il controllo urgente di un medico specialista. Intanto le videocamere del penitenziario inquadravano una sedia vuota, in collegamento con il tribunale di Caltanissetta, dove è in corso il processo per le stragi degli anni Novanta. Fino a quando gli schermi non si sono spenti.
Il silenzio del padrino serve anche a proteggere la rete di protezione, quella sul terreno e quella nei Palazzi. Ieri il Ros dei Carabinieri ha trovato il terzo covo del boss sempre a Campobello di Mazara. Una corsa contro il tempo perché gli investigatori sanno che i “ripulitori” di Cosa nostra devono già essersi messi al lavoro per cancellare tracce e minimizzare i danni.
Al momento della cattura, il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia parlò di “terremoto” dentro e fuori Cosa nostra. E le prime scosse potrebbero arrivare in poche settimane. Si è appreso che nel primo covo individuato, quello di via San Vito, sono stati rintracciati documenti con sigle e numeri di telefono che vengono verificati anche incrociando i rilievi con gli archivi di altre inchieste. Nel materiale rinvenuto, anche un poster con il volto de “Il padrino”, interpretato da Marlon Brando.
Il poster de “il Padrino”trovato nel primo covo di Matteo Messina Denaro - ANSA
A Caltanissetta, dove si svolgono i processi per le stragi di mafia e depistaggi di Stato, nessuno si faceva illusioni. «Che Messina Denaro collabori lo speriamo tutti - ha detto il procuratore generale Antonino Patti, al termine dell’udienza di ieri - ma nessuno di noi può saperlo. È depositario di conoscenze sulla stagione stragista del ‘92 e ‘94 ancora oggi non sondate e sconosciute da altri collaboratori». I capi corleonesi Riina e Provenzano, infatti, condividevano con pochissimi le informazioni più scomode. «Il livello di conoscenza di Messina Denaro per il rapporto stretto con Riina era probabilmente superiore a tutto quello che ci hanno raccontato i collaboratori», ha ribadito Patti.
In questi anni tutte le forze di polizia hanno indagato sul latitante. Non sempre il coordinamento tra procure e forze investigative ha funzionato. Coordinamento che dopo la cattura del boss viene rilanciato proprio per amplificare l’onda d’urto investigativa e massimizzare i risultati e infliggere un colpo mortale alla vecchia guardia e a quella nuova. Se per il ritrovamento del secondo covo, quello con il caveau nascosto in via Tomaselli è stato decisivo l’apporto della Guardia di finanza, ieri la Polizia di Stato ha scoperto un terzo rifugio, sempre a Campobello di Mazara in via San Giovanni, a poche centinaia di metri dagli altri due rifugi.
L’appartamento è stato trovato vuoto e si stanno verificando i passaggi proprietari. Il boss potrebbe averlo usato fino allo scorso giugno. L’esplorazione a ritroso sta permettendo di ricostruire gli ultimi mesi della latitanza dell’ultimo di una generazione di capibastone che si era messa in testa di poter dominare dai nascondigli le istituzioni italiane, a seconda dei casi dirottando in proprio favore o comprandone le decisioni.
I ritrovamenti di queste ore confermano come la vecchia guardia corleonese, pur proiettata nel nuovo mondo degli affari e della bella vita, abbia continuato a sentirsi al sicuro solo a pochi passi da casa. Difficile che un Messina Denaro potesse essere preso sul serio, guadagnando l’indefettibile fiducia dei suoi uomini, se avesse trascorso l’intera latitanza lontano dal proprio feudo.
Omertà e complicità sul terreno, con i silenzi plateali degli ultimi giorni e i “non so” di tanti che avrebbero potuto riconoscerlo o insospettirsi, non devono però far trascurare le coperture eccellenti, i depistaggi, le soffiate di cui ha goduto il capomafia in questi tre decenni, a suo agio tra le campagne e nelle relazioni favorite attraverso l’accesso al mondo opaco della massoneria. Se le indagini dicono che Messina Denaro ha mantenuto il controllo dei mandamenti di Trapani e dell’Agrigentino, senza mai assurgere al ruolo di “capo dei capi”, fino all’epoca di Riina precluso a chi non fosse della provincia mafiosa di Palermo, la lunga irreperibilità ha coperto di sinistra allure l’imprendibile “Diabolik”, negli ultimi anni intento più a proteggere gli affari che a impartire giudizi di vita o di morte.
Giovanni Luppino, l’autista di Messina Denaro, non si è chiuso nel silenzio. Ha detto di essere stato ingannato dal vero Andrea Bonafede, l’uomo che aveva dato copertura e la propria identità al boss, il quale aveva chiesto a Luppino di accompagnare il proprio cognato, malconcio a causa di un tumore, per una giornata di cure nella clinica “La Maddalena” di Palermo. E lui s’è prestato per fare un favore. «Se avesse saputo che quell’uomo era Messina Denaro - gli hanno chiesto gli inquirenti - lo avrebbe portato in ospedale?». «Solo un pazzo avrebbe potuto accettare di accompagnare un latitante e correre un rischio così grande», ha risposto Luppino. Tuttavia quando è stato immobilizzato mentre il Ros catturava “u’ siccu”, Luppino aveva addosso un coltello a serramanico, dalla lama di 18,5 centimetri. E per lui l’arresto è stato convalidato.