A Trento i genitori di Sara hanno chiesto a un giudice di costringere la loro figlia ad abortire nel nome della «ragionevolezza», quella ragionevolezza secondo la quale una sedicenne non può avere un bambino, frutto dell’amore avventato con un giovane albanese. L’epilogo «ragionevole» della storia, con il giudice che ha rimesso la decisione alla ragazza e Sara che ha ceduto al volere della famiglia, ha improvvisamente ricordato ai sostenitori del «diritto all’aborto» che anche nel moderno Occidente spesso le donne non scelgono liberamente di abortire, ma si abbandonano inermi al giudizio di chi – genitori, fidanzato, operatori del consultorio – stabilisce per loro che l’interruzione di gravidanza è la cosa giusta. E nonostante il matematico-tuttologo Piergiorgio Odifreddi abbia rispolverato la provocazione, datata 1981, secondo la quale i tribunali dovrebbero addirittura «impedire la procreazione», questa storia ha dimostrato quanto sia risicato lo spazio dei magistrati per tutelare la vita.In fatto di aborto il Tribunale dei minori non ha alcuna competenza. Il suo ruolo è limitato a verificare, se interpellato, che la ragazza incinta non stia subendo maltrattamenti e di conseguenza a decidere se togliere ai genitori la patria potestà. A poter essere interpellato invece, nel caso in cui i genitori e la ragazza non siano d’accordo, è il giudice tutelare. La legge però lo costringe «a una strettoia», come spiega Giuseppe Anzani, ex giudice tutelare del Tribunale di Milano. Anzani fu fra i firmatari di una richiesta (bocciata) alla Corte Costituzionale in materia di obiezione di coscienza per i giudici. La Corte chiarì che al giudice non spetta proteggere la minore, né sostenerla, né offrirle soluzioni diverse dall’aborto. Il suo compito è unicamente stabilire se la minorenne sa quello che sta facendo, al pari di un adulto. «Di fatto però significa pollice verso o dritto – dice Anzani – un fatto che interpella le nostre coscienze». Per questo, alla fine chi non è disposto a trovarsi con le mani legate preferisce rinunciare all’incarico e le posizioni pro-aborto rischiano di essere predominanti fra i giudici tutelari.Nella maggior parte dei casi il giudice tutelare, dichiarandola in grado di decidere per sé, asseconda la volontà della ragazza. Spesso quindi, al di là delle proprie convinzioni personali, dà il via libera a un aborto senza poter indagare (né tantomeno influire) sui condizionamenti che hanno portato alla decisione di interrompere la gravidanza. Perché anche se in Italia sono relativamente poche le minorenni che abortiscono, aumentano quelle che si rivolgono ai Centri di aiuto alla vita per sfuggire alle pressioni di chi chiede loro di rinunciare al bambino, come denuncia il presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini. Alle spalle famiglie sfasciate da un divorzio o dall’indigenza, ma anche benestanti e legate all’onore sociale, in una evidente emergenza educativa nella quale non si riesce più a insegnare il valore dell’amore, e neppure quello dell’accoglienza. Nel 2008 a Pordenone una quindicenne si rivolse al giudice per riuscire a difendere davanti ai genitori il suo diritto a non abortire –«credo in Dio e non potrei sopportare il dolore di un altro allontanamento», disse: aveva già dato in adozione un altro bambino. In alcuni – rari – casi, invece, il giudice ha preso le parti dei genitori, come accadde nel 2007 a Torino, dove una tredicenne fu obbligata per sentenza ad abortire e poi tentò di togliersi la vita. Eppure secondo la legge 194 del 1978 nessuno può obbligare una donna ad abortire, neppure i suoi genitori. Sempre a Torino l’anno scorso una sedicenne, con l’aiuto di una professoressa e dei volontari del Centro di aiuto alla vita, è scappata in pigiama dall’ospedale Sant’Anna dove la famiglia l’aveva trascinata per farle abortire il figlio concepito con il fidanzato sudamericano. Dopo un rocambolesco intervento della polizia, la fuga e l’accoglienza nel Cav, quel bambino è nato ed è stato amato anche dai nonni che avevano tanto osteggiato la sua nascita. «Alla fine quello che serve alle donne, di tutte le età – racconta Paola Bonzi, fondatrice del Cav della Clinica Mangiagalli di Milano – è soprattutto qualcuno che le ascolti e le sostenga». E quel qualcuno può essere anche un giudice tutelare. Come è successo a una ragazza milanese, che qualche anno fa, accompagnata dalla madre, si rivolse al tribunale perché voleva abortire ma il padre era contrario. Prima di pronunciare il suo verdetto il magistrato scelse di parlare con la famiglia al completo. E adesso il bambino che era in quella pancia va alle elementari.