Attualità

Intervento. Quanto costa la violenza dei maschi sulle donne e come si può uscirne

Giorgio Tamburlini domenica 24 novembre 2024

Un cartellone alla manifestazione di Non una di meno a Roma

Il libro “Il costo della virilità” di Ginevra Bersani Franceschetti e Lucyle Peytavin, pubblicato da “Il Pensiero Scientifico”, illustra con dovizia di dati quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne, attraverso un’analisi dei costi che lo Stato deve affrontare per spese sanitarie, giudiziarie, sociali, contenitive, educative, assicurative, ecc.. in conseguenza dei comportamenti antisociali dei maschi, in particolare quelli caratterizzati da violenza e sopraffazione. Beh, molto più di una finanziaria, ogni anno!

Ma il costo di una maschilità fraintesa come necessaria espressione di violenza e sopraffazione va molto al di là di quanto pur accuratamente computato dalle due ricercatrici, l’una economista e l’altra storica. La stessa Ginevra Bersani ha ammesso, in un dibattito svoltosi l’anno scorso a Roma, che i costi stimati sono quelli dei comportamenti di maggiore, e quindi misurabile, impatto (violenze, incidenti, ecc.).

Mentre gli effetti di quanto di distorto viene trasmesso, per lo più inconsapevolmente, dai genitori ai figli e in particolare ai figli maschi non possono essere calcolati. Già da molto piccoli infatti i giovani maschi, o la maggior parte di essi, vengono di fatto istruiti dai padri alla performance fisica piuttosto che al dialogo e dalle madri (si, distribuiamo un po’ le responsabilità) al mestiere di piccolo principe indiscusso.

Sebbene non siano a disposizione dati precisi al riguardo, le cronache ci restituiscono una epidemiologia preoccupante sulla violenza maschile precoce, sia nella versione “sei mia e solo mia e di te faccio ciò che voglio”, di cui le vittime sono sempre ragazze sempre più giovani, sia nella versione “sono un duro, scostati”, di cui le vittime sono molto più spesso ragazzi, anche questi sempre più giovani.

Tre gli aspetti emergenti: la maggiore diffusione, la maggiore precocità e la maggiore trasversalità rispetto ai ceti sociali di provenienza. Ormai costituisce sapere diffuso che moltissimi ragazzi, ancora adolescenti, vanno abitualmente in giro, e anche a scuola, con un coltello. In alcune zone sono la maggioranza, ma nessuna zona ne è esente, è una sorta di moda.

Sbagliato è pensare che siano soprattutto i giovani immigrati, di prima e di seconda generazione, a farlo: non è la storia di immigrazione, ma la storia di povertà educativa, sono comunità dove si respira illegalità, sopraffazione e violenza che fanno di un adolescente inquieto (cioè normale) un violento e un potenziale assassino. Oggi, tuttavia, questa predisposizione a passare all’atto violento, non trattenuto da alcuna remora, anzi a volte intenzionalmente estremo in quanto espressione di sé, non è prerogativa di pochi svantaggiati, spinti dal loro retroterra sociale a esiti sfavorevoli per sé e per gli altri.

E, come la distribuzione statistica dei rischi spesso impone, sono più numerosi gli accadimenti tragici tra i molti che appaiono a basso rischio che tra i pochi designati come ad alto rischio. Occorre prendere atto di questi cambiamenti e tenerne conto quando si vuole porre rimedio a questa situazione. Il primo degli errori che si commettono è che si tratti di intervenire solo sui pochi già individuati, dalla scuola o dai servizi. Magari contando sulla deterrenza della pena — che in questi casi funziona pochissimo, perché sfidare la legge e la pena è parte integrante del gioco — , o con lodevoli sforzi di recupero, che qualche volta pure hanno successo, troppo spesso no. Il secondo errore è pensare che sia sufficiente intervenire in età adolescenziale — non si contano i programmi ad hoc — e non anche prima, molto prima, quando tratti caratteriali solo in parte innati si incrociano con gli ambienti in cui si cresce, in particolare con i significati e i valori acquisiti nelle interazioni con le figure genitoriali di riferimento, a formare via via, a partire dai primi anni in modo sempre più netto e sempre meno reversibile, le competenze cognitive, e ancor più quelle emotive e socio-relazionali.

Sono proprio queste ultime che si vuole — finalmente — migliorare, ma solo a partire dall’età della scuola quando ancora, certo, qualcosa si può fare, ma quando alcune configurazioni psicologiche — narcisismo, scarsa empatia, scarsa o nulla autoregolazione — si sono già definite, e magari già fuse, con il mito del maschio che non chiede mai, hanno attinto alla moda della violenza come espressione ludica, e hanno trovato nella disponibilità di oggetti atti ad offendere dei prolungamenti del sé.

Alle figure professionali a cui è affidata la cura della salute e il supporto allo sviluppo infantile, e a tutti i decisori politici, spetta di comprendere come alcune azioni da mettere in atto nello spazio dell’ambulatorio, dell’ospedale ma anche del nido, possono influire positivamente su alcune delle radici di questi fenomeni. Ad esempio, è utile sapere che l’assistere alle ecografie prenatali può contribuire a una genitorialità paterna più sensibile, così come la partecipazione al momento del parto e immediatamente dopo anche con un contatto pelle a pelle, non solo nei bambini prematuri dove una tale pratica almeno un po’ si è diffusa. Dopo la nascita può fare ancora la differenza, ai fini di una co-genitorialità, quindi per i papà, ma anche per le mamme, se i papà partecipano alla prima visita e magari alle successive.

Per sapere, conoscere, e capire: il neonato che diventa bambino e i suoi bisogni, il suo apprendere precoce e implicito dai comportamenti degli adulti, il suo modellarsi su quanto vede e sente attorno. In questo può fare molta differenza il modo di porsi della o del pediatra, dell’educatrice, dell’insegnante: se ascolta, se apre finestre di dialogo su come si sentono i genitori, quali le preoccupazioni, cosa fanno o pensano di fare, o potrebbero fare nelle loro quotidiane interazioni con il bambino o la bambina. Se è capace, anche, di introdurre in questo dialogo i consigli su come “voltare pagina” rispetto alla riproduzione sociale ma prima di tutto familiare della figura del maschio sopraffattore: evitando di riproporre stereotipi come il bambino che non deve piangere o la bambina che deve aiutare la mamma nelle faccende domestiche.

L’albero della violenza può crescere più o meno forte a seconda del nutrimento che riceve, ma le sue radici sono molto precoci e hanno terreni prediletti ma non esclusivi. Questa dovrebbe essere consapevolezza comune e su questa dovrebbero essere costruite le politiche e attivate le energie di tutti.

Pediatra, presidente del Centro per la Salute del Bambino