Attualità

Meeting. Martiri algerini, le radici della fede

Alessandro Zaccuri, inviato a Rimini sabato 24 agosto 2019

Non sono soltanto le leggi a garantire la libertà o a metterla in pericolo. «Oggi la vera minaccia viene dall’ignoranza dell’altro», scandisce padre Thomas Georgeon, postulatore della causa di beatificazione dei martiri algerini, la cui proclamazione è avvenuta a Orano l’8 dicembre dello scorso anno. Diciannove religiosi e religiose, uccisi dai terroristi tra il 1994 e il 1996, all’apice del decennio terribile che è costato al Paese non meno di 150mila vittime. «Come cristiani – aggiunge il trappista – siamo sempre chiamati a fare comunità anche con chi è diverso da noi, perché è questo cammino verso l’altro a permettere una maggiore conoscenza di noi stessi. Al contrario di quanto fa l’ignoranza, che conduce all’indifferenza e, presto o tardi, alla violenza. Quando ci si richiude in se stessi, è la fede stessa a morire».

Parole impegnative, forse addirittura imprevedibili, eppure impossibili da fraintendere. Poco prima, durante l’incontro che il Meeting ha voluto dedicare alla questione cruciale della libertà religiosa, don Stefano Alberto ha dato lettura del testamento spirituale del priore del monastero di Tibhirine, padre Christian de Chergé, trucidato con sei confratelli il 21 maggio del 1996: una testimonianza di affidamento assoluto e, insieme, di amore per il popolo algerino suggellata dal saluto fraterno all’“amico dell’ultimo istante”, ossia l’uomo dal quale padre Christian immaginava di poter essere ucciso e con il quale si augurava di ritrovarsi nell’abbraccio dell’unico Dio.

Sullo sfondo dell’incontro (che ieri ha chiuso la serie degli appuntamenti dedicati ai temi fondativi della quarantesima edizione del Meeting) il documento su “La libertà religiosa per il bene di tutti”, pubblicato nell’aprile scorso dalla Commissione teologica internazionale. A illustrarne il contenuto e, più ancora, a indicarne implicazioni e premesse è il rettore dell’Università San Damaso di Madrid, padre Javier Prades López. «La sfida decisiva – avverte – consiste nel vivere religiosamente la libertà, muovendo dall’interno di un’esperienza che ci riporti alle origini del credere. La fede comporta sempre una libera adesione della persona umana nei confronti di Dio, ma non per questo può esaurirsi in una dimensione intima, privata. C’è un orizzonte storico-comunitario che non va in alcun modo trascurato, rispetto al quale gli Stati non possono accontentarsi di fornire soluzioni meramente formali. Anche in Occidente il ritorno delle religioni nello spazio pubblico ha riaperto i giochi in molte direzioni, compresa la riflessione sullo statuto della verità, che non è riducibile alla varietà delle opinioni. Lo stesso multiculturalismo, per essere perseguito con efficacia, non può prescindere da questo aspetto: sarebbe illusorio puntare a una convivenza che metta la religione tra parentesi».

Come già affermava don Luigi Giussani, il martirio rappresenta il “caso serio” della fede. Da qui la necessità di mettersi in ascolto dei martiri algerini, la cui vicenda è stata rievocata al Meeting anche dallo spettacolo Pierre e Mohamed, tratto dal libro di Adrien Candiard e ispirato alla vicenda del vescovo di Orano, monsignor Pierre Claverie. A lui si deve, tra l’altro, la definizione di “martirio bianco” richiamata da padre Georgeon, a sua volta autore, con Christophe Henning di La nostra morte non ci appartiene (Emi). «L’espressione, ripresa da papa Francesco, si riferisce alle situazioni nelle quali, pur senza arrivare allo spargimento di sangue, i credenti sono comunque emarginati e perseguitati – spiega –. La limitazione della libertà religiosa è senza dubbio uno di questi casi e può verificarsi anche all’interno dei Paesi democratici».

Una constatazione, questa, che porta ad apprezzare ulteriormente la profezia di cui i martiri algerini sono portatori. «Si sarebbero potuti accontentare di amministrare una Chiesa da ambasciata, al riparo delle proprie sicurezze, mentre invece scelsero di restare nel Paese in guerra, come al capezzale di un amico malato – racconta –. Fu questa volontà a ricondurli al nucleo essenziale della fede, come scrisse una di loro, suor Odette Prévost. In ciascuno era fortissimo il sentimento di amicizia per il popolo algerino, che non volevano abbandonare alla tentazione della solitudine e dello smarrimento. I martiri algerini ci ricordano che l’altro ci è necessario, perché nessuno può esistere separato dal resto dell’umanità. Siamo vivi e siamo credenti fino a quando restiamo solidali».