Bergamo. Il coraggio di don Omar: l'oratorio chiuso per risse è ripartito
Don Omar Moriggi
«Più che un prete ormai mi sembra di essere un guardiano. Anzi, un carabiniere».
Don Omar Moriggi, 33 anni, è il curato di Martinengo, paesotto di 11 mila anime che spunta come un’isola tra i campi e i capannoni della Bassa bergamasca, dove negli ultimi anni sono approdati tanti immigrati per lavorare in agricoltura o nell’edilizia, storico vanto di questa provincia laboriosa. Indiani, rumeni, soprattutto marocchini. I più giovani affollano l’oratorio, ma forse il termine non è appropriato. Alcuni lo hanno praticamente invaso, imponendo la legge del più forte.
«Quando sono arrivato, nel settembre scorso, mi pareva una specie di Bronx. Mi hanno subito detto: qui comandiamo noi».
Il 7 aprile scorso si è scatenato un sabato di ordinaria follia: risse, insulti, gazzarra diffusa. Don Omar si è fatto sentire e un gruppo di 14-15enni è andato a sfogarsi fuori, mettendosi a saltare sulle auto in sosta e lanciando sassi contro i vetri dell’oratorio. «È successo di tutto – ricorda don Omar – un vicino è uscito con un bastone in mano, per fortuna sono arrivati i carabinieri prima che tutto degenerasse».
Il giorno dopo la decisione drastica: oratorio chiuso per cinque giorni, con un foglietto appeso al portone per spiegare il motivo, in italiano e in arabo: «Questo è un luogo educativo e cristiano: se non riesci a rispettare persone e cose non entrare». Apriti cielo. Il caso ha conquistato i giornali, svelando l’esistenza di un contesto difficile, apparentemente ignorato da tutti, nemmeno si trattasse di un pianeta sconosciuto.
«Invece qui va avanti così da anni – insiste don Omar - chi mi ha preceduto ha vissuto momenti difficili. A me non sta bene, perciò ho detto basta. Anche perché ci sono precedenti gravi: a dicembre, durante una rissa nella via, è spuntato persino un machete. Era ora di mettere qualche regola».
Dopo una riunione con Comune, scuola e associazioni, l’oratorio ha riaperto. Il patto è di rivedersi periodicamente, coinvolgendo anche l’imam della moschea locale, per tenere sotto controllo una situazione che adesso sembra leggermente migliorata. «Ho messo alcuni paletti: rispetto rigoroso degli orari, obbligo di parlare in italiano, divieto di aggirarsi con bici e monopattini nei campetti da gioco».
Mentre spiega, si vede passare davanti un 13enne che pedala tranquillo nel bel mezzo del campo di pallone. «Mettila giù, non si può», gli dice. Il ragazzino lo guarda e sorride, poi continua imperterrito a pedalare. «Vede, qui è così…» sbuffa don Omar, che però non vuole passare per sceriffo né per intollerante, anzi.
«Questa ormai è terra di missione, e io non mi tiro indietro. Tutti sono benvenuti, basta che ci sia il rispetto dell’altro. Con i ragazzi del paese la convivenza è difficile: litigano con i coetanei marocchini, spesso finisce a botte. E allora preferiscono andare a giocare altrove. Qualcosa ora sta cambiando, qualcuno sta tornando. Ma c’è ancora molto da fare. Tutti devono fare la loro parte, a partire dagli adulti: i genitori, italiani o marocchini che siano, non possono soltanto delegare. A loro dico: venite qui, siate presenti. Ma pochi raccolgono l’appello».
Per un attimo l’ottimismo viene oscurato dall’amarezza. «La verità è che a volte mi sento solo. Io condivido volentieri problemi ed esperienze, ma alla fine la responsabilità è mia». Dopo la chiusura sono arrivate un po’ di telefonate, ha chiamato anche la Curia di Bergamo assicurando sostegno. Per il resto non si è sentito (né visto) nessuno. Dei politici nemmeno l’ombra. Solidarietà a distanza, il contatto ravvicinato con la realtà a volte può essere molto faticoso.
Martinengo sorge a metà fra Bergamo e Brescia: distano poco più di 20 km, ma sembrano lontanissime. Una terra di mezzo che in certi momenti sembra una terra di nessuno. I carabinieri della stazione locale sono pochi e sono oberati di lavoro. Furti, rapine, soprattutto spaccio di droga. Ovunque.
«Qui fuori la sera non si può passeggiare» dice don Omar, che una volta facendo due passi si è sentito sfiorare da uno sputo. In un paese vicino il parroco ha fatto installare le telecamere, perché a fine giornata una baby gang aspettava al varco i volontari per rubare l’incasso del bar parrocchiale.
Un territorio tormentato, dove la società multietnica si è stratificata a prescindere dalle diatribe politiche e ideologiche. Più in fretta del previsto, e non sempre nelle forme immaginate. Don Omar indica l’edificio diroccato alle spalle dell’oratorio: «Fino a poco tempo fa questo stabile abbandonato era occupato da clandestini pakistani, poi le forze dell’ordine l’hanno sgomberato». Una zona di frontiera dove uno non sogna esattamente di finire. Però, visto che ci sei, hai due opzioni: o ti arrendi o lotti per far andare meglio le cose.
Il curato ha scelto la seconda. Oggi l’oratorio è un cantiere aperto: presto saranno pronti nuovi uffici e uno spazio con scivoli e altalene. «Sono convinto che si debba ripartire dalla dimensione del gioco, dai bambini e dalle famiglie». Integrazione resta la parola d’ordine, anche se vista da qui non è uno slogan, ma una sfida vera. «Da quando c’è don Omar la situazione è cambiata – dicono Marilena e Speranza, due volontarie che portano avanti gruppi e attività – anche i ragazzi musulmani più grandi cercano di dare una mano, riprendendo i più giovani quando esagerano. Non è facile, ma ci proviamo».
Ad esempio con il corso di italiano, che da 7 anni aiuta le donne marocchine ad assimilare lingua, cultura e abitudini nazionali. «Don Omar ha fatto bene, qui si viene per giocare e stare insieme – sbotta Salima, madre di due bambini di 14 e 10 anni – ai miei figli dico sempre di comportarsi come si deve, di rispettare tutti». Si prova a fare squadra, azionando anche la leva dello sport. «Chi combina guai in oratorio viene segnalato agli allenatori – dicono le volontarie – e viene escluso dalla squadra di calcio. Un metodo che sta dando i suoi frutti».
La strada è ancora lunga, ma il percorso è tracciato. Don Omar saluta, torna alla sua missione. Nel campetto, intanto, il ragazzino continua a pedalare.