Lega divisa in due, anzi in quattro. Maroniani contro bossiani. Innocentisti contro colpevolisti. La base è disorientata, Radio Padania grida al complotto dei poteri forti. Il caso del tesoriere Francesco Belsito, uomo di fiducia di Bossi, scuote il Carroccio, portandolo a un passo dal baratro. E portando lui, il senatur, finito con la sua famiglia nel mirino dei magistrati, a meditare le dimissioni. «Colpiscono me per colpire la Lega», dirà poi a tarda sera, Bossi. Prevale la voglia di compromesso, sulla soglia del punto di non ritorno che può sfociare in scissione, o come scrivono i militanti su Internet nella «fine del sogno romantico della Lega». Sotto pressione, in serata, dopo la riunione nel quartier generale, in via Bellerio, Belsito si dimette («bella notizia», dice subito Roberto Maroni). È l’epilogo di una giornata drammatica, cominciata in mattinata, quando carabinieri e Guardia di Finanza, su mandato delle Procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria, danno il via all’operazione.Il primo a parlare è proprio Maroni. Scuro in volto, furioso: «È il momento di cogliere questa occasione per fare pulizia. Belsito dovrebbe fare un passo indietro». Poi apre di fatto la resa dei conti sulla successione. «Avevamo chiesto – ricorda l’ex ministro dell’Interno – in un Consiglio federale che ci portassero i conti, che si facesse chiarezza e si facesse un passo indietro. Questo non è accaduto». Ora sembra tardi. E chi non ha ascoltato? «Chi doveva decidere», aggiunge ancora Maroni, lasciandosi scappare un funereo presagio sul voto amministrativo ormai alle porte: «Avrà ripercussioni negative». Il dito è così puntato contro Bossi e i suoi, perché non hanno deciso quando già erano emerse «strane cose», come quegli investimenti bizzarri in Tanzania. Così come in molti, nella Lega, rinfacciano ora a Maroni timidezza, per non aver “pensionato” Bossi e il suo giro alcuni mesi fa, quando ai congressi locali c’erano i voti per farlo. E siamo a mezzogiorno, quando arriva la voce di un vertice di emergenza da fare in serata. In via Bellerio compare Roberto Calderoli, a capo delle segreterie del partito, il segretario federale Bossi, il governatore del Piemonte Roberto Cota, e Roberto Castelli. Più tardi spunta anche Giulio Tremonti, e quando arriva lo stesso Belsito si capisce che la svolta è vicina. Ma lui Maroni comunque “in Bellerio” non ci andrà, nonostante in mattinata fosse a Milano per un convegno alla Cattolica. Ma il sostegno alla sua linea arriva anche dal Veneto. «Se qualcuno ha colpe deve pagare – dice il governatore, Luca Zaia –. Il nostro partito deve essere trasparente come un cristallo». Ma la domanda che aleggia è un altra. Gira intorno a quanto scritto dai magistrati nell’ordinanza: «Esborsi per esigenze di familiari del leader della Lega». Una cosa che se fosse vera – al momento né Bossi né alcun suo familiare è indagato – costringerebbe il senatur al “passo indietro” e ad una successione forzata e immediata. A favore di chi?. «Noi siamo parte lesa», dice subito Maroni, successore naturale. Poi scatta la difesa del capo, anche fra i maroniani. Il sindaco di Varese Attilio Fontana è chiaro: «Se ci sono errori Bossi non li conosce». Il sindaco di Verona, Flavio Tosi esclude il coinvolgimento del senatur. «Bossi è lontano da intessi economici», aggiunge Cota. «Conosco Bossi, sono certo della sua estraneità», interviene Silvio Berlusconi. Bossi per ora non molla, ma una piazza vuota già c’è, quella del tesoriere. Un nome possibile, circolato ieri è quello di Davide Caparini, vicino a Maroni ma che potrebbe giocare super partes.