«Sono passati sette mesi. Siamo disperati. Da quel che sappiamo, nostro figlio e i suoi compagni vengono sottonutriti, bevono poco e non possono lavarsi. Qualcuno di loro si sarebbe ammalato. Se non li uccidono i pirati, rischiano di morire lo stesso, di stenti. Lo Stato italiano deve intervenire: non può abbandonarli così…». Adriano Bon inghiotte saliva per non lacrimare. È venuto da Trieste, insieme a sua moglie, fino a piazza Montecitorio, per chiedere la liberazione di suo figlio Eugenio, trent’anni, primo ufficiale di coperta della petroliera Savina Caylyn, rapito l’8 febbraio da una banda di pirati somali, insieme ad altri quattro marittimi italiani e al resto dell’equipaggio (17 indiani). La stessa sorte che, dal 21 aprile, tocca a sei marinai italiani di un’altra nave, la Rosalia d’Amato, anch’essa abbordata dai pirati.Undici italiani, dunque, che da mesi vivono in catene, attendendo che il governo e gli armatori delle navi portino avanti le trattative per il rilascio. Ieri cinquecento familiari e amici dei rapiti sono partiti da Procida, Gaeta, Piani di Sorrento e Trieste verso Roma, per dare vita ad un corteo pacifico, indossando magliette coi volti dei sequestrati e invocando a gran voce la loro liberazione. Davanti a tutti, uno striscione: «Senza cibo né acqua da bere, è una vergogna il vostro tacere».«Sono duecento giorni che loro sono in catene – sbotta Maria Rosaria Savarese, procidana –. Come stareste voi a svegliarvi ogni mattina con una pistola alla tempia, senza bere né mangiare, seduti sulle lamiere roventi di una nave coi polsi e le caviglie legati? L’Italia non può abbandonare questi suoi figli». Una delegazione di parenti, insieme al sindaco di Procida, Vincenzo Capezzuto, ha incontrato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, e i sottosegretari agli Esteri Enzo Scotti e Alfredo Mantica, che hanno promesso impegno da parte delle istituzioni. «Abbiamo la sensazione che in questo momento il governo non abbia ancora deciso, quanto piuttosto che abbia delegato l’armatore a chiudere la vicenda», confida Capezzuto.Anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, su indicazione del premier Silvio Berlusconi, ha avuto un colloquio coi familiari dei rapiti. «Le Forze armate seguono la vicenda con attenzione», avverte il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Ma dall’opposizione, Fabio Evangelisti (Italia dei valori) invita il titolare degli Esteri, Franco Frattini, a «riferire subito in Parlamento sulla situazione dei marinai italiani».Prese di posizione interlocutorie, pronunciate anche per ridare speranza ai familiari, ma che non riescono ad attenuare la loro preoccupazione. Basta osservare i volti tesi del papà di Gianmaria Cesaro («L’armatore della nave, D’Amato, dice che è depresso. E noi, cosa dovremmo dire?»), della mamma di Crescenzo Guardascione («Come starà adesso mio figlio?»), o della moglie di Antonio Verrecchia: «Mio marito ha 62 anni. Quanto potrà resistere in quelle condizioni?».Nunzia Nappa è la moglie del comandante della Caylyn, Giuseppe Lubrano Lavadera: «Non sappiamo neppure se siano vivi o morti. Sono mesi che non sento mio marito. Spero che resista, ma lo Stato non può aspettare ancora. Il governo e l’armatore ci hanno dato finora solo rassicurazioni. Ma noi chiediamo fatti. Siamo qui: mogli, sorelle, madri. Li vogliamo liberi, subito». Con la stessa dignità, Adriano Bon tiene la mano di sua moglie lasciando Montecitorio: «È una vergogna. Non posso credere che lo Stato italiano abbandoni così undici persone e due navi, due pezzi del suo territorio. Noi pretendiamo che si faccia qualcosa».