Il caso. Autorizzato un altro suicidio assistito nelle Marche, restano i dubbi legali
Dopo Federico Carboni, nominato "Mario" fino al momento della morte, a un’altra persona è stata spianata la strada verso il suicidio assistito: si tratta di "Antonio", marchigiano come l’altro ammalato grave che lo ha preceduto sulla strada dell’autoannientamento.
Non è stato facile, per lui, 44 anni, tetraplegico, a seguito di un incidente stradale 8 anni fa in Sicilia, vedere esaudita la richiesta di morire: non a caso, è assistito dal collegio legale dell’Associazione radicale Luca Coscioni, da sempre in prima linea per vedere introdotta nel nostro ordinamento la morte a richiesta. Gli avvocati, dinanzi all’inerzia dell’autorità medica territoriale, avevano fatto ricorso al tribunale di Fermo. E avevano vinto. Era seguita poi una diffida all’indirizzo dell’azienda sanitaria, ancora titubante in relazione alla procedura da seguire per ammettere "Antonio" al suicidio assistito.
Ora, invece, il paziente tiene nelle proprie mani i due piatti della sua bilancia, che oscilla tra la vita e la morte: può decidere se e quando autosomministrarsi il farmaco letale, dato che Comitato etico e Azienda sanitaria hanno ritenuto congrue le modalità tecniche di esecuzione del suicidio proposte dai consulenti del paziente. Era il tassello che mancava, posto che la verifica delle condizioni aveva dato esito positivo.
«Stavo per riprendere i contatti con la struttura Svizzera che avevo contattato prima di questo percorso – ha commentato Antonio, ex operaio specializzato, appassionato di musica rock, motori e snowboard –, ma oggi, alla notizia della conferma del farmaco e delle modalità che potrò seguire, sono felice di poter avere vicino i miei cari qui con me, a casa mia fino all’ultimo momento. Inizio ora a predisporre ogni cosa al fine di procedere in tempi brevi con il suicidio assistito».
Sotto il profilo giuridico, tuttavia, l’epilogo della vicenda suscita alcune perplessità. Facciamo un passo indietro. Nel nostro ordinamento, l’articolo 580 del codice penale sanzionava sempre e comunque qualsiasi intervento di terzi che agevolasse il suicidio di una persona. È poi intervenuta la sentenza 242 del 2019, che ha sancito la non punibilità di chi aiuta a morire una persona dal consenso liberamente e autonomamente formato, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche da essa ritenute intollerabili. Sempre la Corte, ha previsto in ogni caso che la verifica di queste condizioni, affidata a una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, dovesse essere preceduta dal parere del comitato etico territorialmente competente, e che – in ogni caso – la scelta del suicidio assistito avrebbe dovuto essere l’ultima chance, in caso di fallimento (anche) delle cure palliative.
Sta proprio in questa sentenza il caso giuridico della morte di Federico Carboni, e, ora, quella di "Antonio", se sarà proprio questa la strada che vorrà percorrere: la Consulta, infatti, non ha istituito alcun obbligo in carico ai sanitari, ma si è limitata a sancire la non punibilità dei medici che – in presenza delle condizioni poco fa ricordate – ritengono di collaborare al suicidio di un paziente. È vero: la stessa Corte ha poi dettato delle procedure per disciplinare l’accesso al suicidio, ma lo ha fatto nella forma di suggerimento al Parlamento, l’autorità che avrebbe poi dovuto varare una legge consonante certamente con il dispositivo della sentenza (vale a dire la non punibilità dei sanitari), ed, eventualmente, anche con le modalità indicate dalla Consulta.
Il punto è proprio questo: dal momento che il Parlamento non è ancora stato in grado di approvare la norma suggerita dai giudici costituzionali, è arduo sostenere che – sia pur in presenza delle condizioni dettate dalla Consulta – vi sia un obbligo, in capo allo Stato, di assicurare la morte a richiesta. In altre parole, se Antonio avesse spontaneamente trovato un’azienda sanitaria disposta a verificare l’esistenza, su di lui, delle prerogative per accedere al suicidio assistito, e subito dopo un medico disposto ad aiutarlo, questi sanitari non avrebbero potuto essere puniti. Ben diverso, al contrario, è sostenere che dalla Corte Costituzionale fosse giunto un obbligo, in capo a questi soggetti, di cooperare a procedure di autoannientamento.