In Italia ogni emergenza locale porta alla luce una mappa nazionale di lacune. Le alluvioni dello scorso autunno ci hanno mostrato una penisola massacrata dal dissesto idrogeologico e dalle incurie delle amministrazioni; la tragedia del Giglio ha puntato i riflettori su coste e tratti di mare protetti intasati dal traffico di mastodonti insicuri; il caso dell’Ilva, oggi, punta il dito sul tasto dolentissimo delle bonifiche. Un’altra “geografia” di buchi neri e rimpalli di responsabilità, che traccia i confini di un territorio troppo fragile persino per sostenere il suo sviluppo industriale.Così, eccola, l’ennesima Italia maglia nera: è quella dei "Sin", i Siti di interesse nazionale per le bonifiche, come li chiama l’Istituto superiore di sanità che li ha censiti. La sua cartina (che pubblichiamo qui accanto) conta su 57 “punti” di interesse: trattasi, in realtà, di comprensori industriali che coinvolgono uno più comuni (in totale sono 298), da anni sotto la lente d’ingrandimento del ministero della Salute per i problemi causati all’ambiente e alle popolazioni che vivono nella zona. E per cui sono stati richiesti e programmati (sulla carta almeno) interventi di riqualificazione e bonifica del territorio.L’Iss li ha catalogati in uno studio ("Sentieri", acronimo di Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento) che qualche giorno fa ha diviso medici ed esperti per le sue rilevazioni sull’eccesso di mortalità per tumori a Taranto. C’è chi ha parlato di inutili allarmismi, chi invece ha trovato nei numeri della ricerca le giustificazioni al sequestro dello stabilimento pugliese da parte della magistratura. Fatto sta che le 200 e passa pagine dello studio fotografano un Paese (e certo non solo una città) al palo in fatto di bonifiche territoriali e rispetto della salute. In cui su 57 progetti più o meno avviati a oggi – almeno secondo i dati di Legambiente – soltanto uno può essere dichiarato concluso: quello relativo al Sin (peraltro commissariato) di Cengio e Saliceto, con 32 comuni afferenti compresi tra Piemonte e Liguria. Leggerezza degli industriali? Latitanza delle amministrazioni? Queste ultime puntano il dito contro lo Stato e i tagli, che nel corso degli anni hanno assottigliato i fondi a disposizione dei Comuni. Mancano i fondi, per esempio, per le bonifiche a Casale Monferrato, il comune dell’Alessandrino sede dell’ex stabilimento Eternit al quale finora sono stati assegnati fondi statali pari a 46 milioni di euro, erogati attraverso la Regione Piemonte a rendicontazione delle spese effettuate. L’intera cifra, spiegano dal municipio, è a oggi completamente impegnata. Ma per completare le bonifiche non bastano: «Saranno necessari altri 25 milioni di euro», spiega il sindaco Giorgio Demezzi (anche se uno stanziamento potrebbe arrivare già nel 2012). Ad oggi sono stati censiti 1 milione 200mila metri quadrati di coperture, di cui oltre 500mila già bonificati.E mancano i fondi anche per bonificare il Sin del bacino idrografico del fiume Sacco, nel Lazio, inquinato addirittura «da secoli, perché le aziende scaricano i rifiuti nel fiume, senza utilizzare depuratori», denuncia Anna Maria Girolami, sindaco di Morolo, uno dei comuni che rientra nel comprensorio. Secondo il sindaco, oltre ai finanziamenti, «ci vuole programmazione anche con la Regione che, fino ad oggi, ha prodotto solo chiacchiere».A Cassano allo Ionio, la ferita causata al deposito dei ferriti di zinco della ex Syndial di Crotone è ancora aperta e, dopo la bonifica, si pensa a chiedere un risarcimento danni. Il sindaco del comune calabrese, Gianni Papasso, punta a un accordo stragiudiziale con l’Eni per l’inquinamento subito, visto che Cassano, oltre al forte aumento delle neoplasie registrato, avrebbe subito anche «un danno ambientale e di immagine per il territorio». E ancora aperta è la ferita quasi mortale di Gela, in provincia di Caltanisetta, dove la salute della popolazione è stata messa in ginocchio da uno dei più grandi poli petrolchimici d’Europa: «Per fortuna sul nostro territorio ci sono oggi una serie di vincoli che purtroppo negli anni passati non esistevano, consentendo che si realizzassero veri è propri scempi – spiega il primo cittadino Angelo Fasulo –. Ora bisogna fare in modo che alla città sia restituito quello che le è stato tolto quando l’ambiente, invece di essere visto come una risorsa, era considerato un problema.Essere inserito in un Sin «non è un buon biglietto da visita per gli investitori» invece per Pasquale Scavone, sindaco di Tito, dichiarato tale nel 1995 per lo sversamento di trielina da parte di un’azienda dell’area industriale (con conseguente contaminazione della falda sotterranea) e per l’attività dell’ex stabilimento Liquichimica (che, sebbene chiuso da anni, ha lasciato una pesante eredità di inquinanti sul territorio). Meglio, quindi, evitare gli allarmismi, per il sindaco di Tito così come per il primo cittadino di Livorno Alessandro Cosimi, per il quale «si sta aprendo una fase di allarmismo irrazionale. C’è una legge nazionale che dice che i Sin sono aree di bonifica. Tutti i Sin toscani stanno lavorando per arrivare a un protocollo, ma da qui a parlare di Comuni “tossici” ce ne corre».E se c’è chi sta ancora lavorando a un protocollo di interventi, in molti altri Comuni il dibattito sulle bonifiche non è nemmeno cominciato. Sebbene Biancavilla, per esempio, sia indicato come Sin «non mi risulta che saremo soggetti a provvedimenti che ci obbligherebbero ad interventi di riqualificazione e recupero ambientale», spiega il sindaco del centro del catanese, Giuseppe Glorioso.