Trent'anni fa. Mani Pulite, l'occasione persa. E il "dopo" non è mai partito
Galleria Vittorio Emanuele, da sinistra Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli ai funerali della strage di via Palestro
Il 17 febbraio del 1992 è il giorno in cui Mario Chiesa, esponente del Psi milanese e presidente del Pio Albergo Trivulzio, viene arrestato mentre incassa una tangente di 7 milioni di lire per un appalto. Quella data segna l’inizio di un fenomeno finito nei libri di storia contemporanea sotto il nome di Tangentopoli o di Mani Pulite. In molti - approfittando di altri anniversari "tondi" di quel fatto oppure prendendo spunto da altri arresti, decessi o pensionamenti dei protagonisti di allora - si sono già esercitati a giudicare ed esaminare quella stagione.
Sono stati contati gli indagati (circa 5mila soltanto a Milano), i condannati in via definitiva (poco più di 1.200, ai quali vanno aggiunte 448 sentenze di estinzione del reato per prescrizione, morte dell’imputato, amnistia), gli imputati o indagati che si sono suicidati (secondo alcune fonti 41, secondo altre 31, tra politici e imprenditori) e partiti politici storici spazzati via, cioè praticamente tutti tranne il Pci, che però già un anno prima si era trasformato in Pds in seguito alla caduta del Muro di Berlino e allo sbriciolamento del blocco comunista est-europeo. La fiammata iniziale durò poco più di due anni, gli strascichi una decina. Molti altri elementi potrebbero essere citati e sono stati studiati, come il ricorso abnorme alla custodia cautelare e l’elevato numero di condanne di lieve entità (sotto i due anni di reclusione, quindi con pena sospesa) prodotto da inchieste che ebbero, di contro, grande clamore mediatico ed effetti immediati dirompenti sulle vite delle persone (e delle realtà) coinvolte.
Ma a 30 anni esatti dall’arresto di colui che a caldo, improvvidamente, Bettino Craxi definì «un mariuolo» isolato dal resto del Partito socialista, non avrebbe senso ripercorrere la storia di Mani Pulite con un approccio esclusivamente didascalico, né giudicarla inforcando i comodi occhiali del senno di poi. I quali, per altro, non sempre lasciano vedere a tutti lo stesso quadro. Anzi. Quello che si può dire con certezza è che quasi tutti allora - nelle redazioni giornalistiche, nei palazzi di giustizia, nelle case e negli uffici di tutto il Paese - salutarono con entusiasmo quegli eventi e che non pochi, negli anni, hanno visto quell’entusiasmo scomparire o trascolorare in valutazioni meno sommarie.
La stessa figura del leader socialista Craxi, trattato allora come un volgare criminale, il prototipo del politico da mettere alla gogna ben oltre le sue responsabilità penali (e in effetti per una feroce "gogna", fatta d’insulti e lanci di monetine, dovette passare), è stata in parte rivalutata, a ormai oltre 20 anni dalla morte. Altri sono sopravvissuti a quegli anni di furore e adesso vengono intervistati alla ricerca di spunti per capire il caos della politica di oggi. Qualcuno, nella settimana lunare che è sfociata nella rielezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, era ospite in tv a spiegare come uscire dallo stallo, dimostrando di avere ancora le idee chiare. Considerazioni che ovviamente non riducono in alcun modo le responsabilità dei partiti di allora: la corruzione e il finanziamento illecito non li ha certo inventati dal nulla il pool Mani Pulite della Procura di Milano. Così come il clientelismo, le complicità e i compromessi con ambienti criminali, la lottizzazione degli incarichi pubblici, la spartizione degli appalti. Esistevano già e il "cittadino comune" lo sapeva bene: ne sorrideva amaramente al cinema dove si proiettavano film che denunciavano il marcio, ne parlava indignato al bar o in coda all’ufficio postale e però magari, se capitava o gli serviva, ne approfittava per il suo tornaconto.
L'allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa - Archivio Fotogramma
Così oggi, più che raccontarne da capo la storia, sembra più utile riflettere su quanto è rimasto di Tangentopoli. È rimasto il "prima", o almeno la stessa percezione del "prima": partiti deboli e visti con diffidenza dal "cittadino comune" (vedi sopra); una tendenza al protagonismo, per fortuna minoritaria ma comunque assai diffusa, tra i pubblici ministeri; il vizio di gran parte del mondo dell’informazione di riferire le tesi accusatorie come fossero verità accertate e sancite da una sentenza definitiva. Basta dare un’occhiata alle cronache giudiziarie degli ultimi anni o degli ultimi giorni per rendersene conto. È della scorsa settimana l’arresto nel Piacentino di tre sindaci, con l’iscrizione tra gli indagati di un deputato, per un presunto «sistema corruttivo diffuso» relativo all’assegnazione di appalti pubblici.
Nelle stesse ore andava in scena uno scontro a colpi di dichiarazioni e carte da bollo sulla vicenda della Fondazione Open, che riguarda l’ex premier Matteo Renzi e altri esponenti politici nazionali: la procura di Firenze chiede di processarli per «finanziamento illecito», Renzi ribatte e controdenuncia, alla polemica partecipa anche l’Associazione nazionale magistrati. Niente di nuovo nemmeno in questo caso, visto che il cosiddetto "sindacato" delle toghe ha assunto negli anni, soprattutto durante i governi guidati da Silvio Berlusconi, il ruolo di controparte dell’esecutivo in materia di politica giudiziaria, proclamando scioperi e organizzando manifestazioni contro leggi in cantiere. Berlusconi stesso, entrato in politica con il suo evidente conflitto d’interessi sulle macerie fumanti dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica, si può definire una conseguenza non voluta o non prevista di Mani Pulite.
La sensazione di "già visto" è costante e molti altri esempi potrebbero essere portati, in questo senso. Sembra, insomma, che il "dopo" Mani Pulite non sia mai arrivato, almeno in termini di rapporti tra politica, magistratura, informazione. Ciò ha contribuito alla diffusione della tesi di una "rivoluzione tradita" (come già accadde per il Risorgimento e per la Resistenza, con esiti per altro tragici in entrambi i casi: nel primo caso il fascismo, nel secondo il terrorismo rosso) che ha fatto la fortuna elettorale del Movimento 5 Stelle, che ora si dibatte nelle inevitabili contraddizioni di un movimento nato come anti-politico e finito per tre volte consecutive al governo insieme ai "nemici" giurati di un tempo. Mani Pulite, indubbiamente, ha avuto il merito di togliere il tappo alla vasca stagnante della politica italiana di allora.
Ma poi l’acqua sporca ha portato via con sé anche le ossature dei partiti politici fondati sulle grandi tradizioni di pensiero dell’Ottocento e del Novecento, che non hanno avuto la forza di rigenerarsi: gli apparati di potere avevano ormai soffocato lo slancio ideale e democratico. Mentre la stessa magistratura è caduta in una preoccupante crisi di credibilità dopo essere stata contagiata da malattie molto simili a quelle della politica, come il correntismo, le lotte di potere, l’autoreferenzialità, le tentazioni corporative, tutte esplose simbolicamente nel cosiddetto "caso Palamara" al termine di una gestazione durata lunghi anni.
In definitiva Mani Pulite non è stata una rivoluzione incompiuta, perché in democrazia si dovrebbero fare riforme e non rivoluzioni, meno che mai per mano dei magistrati. Anche (anzi, soprattutto) se dichiarano di voler «rivoltare l’Italia come un calzino» come fece uno dei componenti del pool milanese, Piercamillo Davigo, convinto che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Ancora qualche giorno fa, Davigo, da poco in pensione dopo essere stato consigliere del Csm fino all’ottobre del 2020, ha confidato a un’agenzia di stampa il suo rammarico su Tangentopoli: «Non si può processare un sistema prima che sia caduto».
Fatto sta che la magistratura non dovrebbe abbattere e processare "il sistema", bensì processare singole persone per aver commesso singoli reati. Ecco che cosa poteva essere, e non è stata, Mani Pulite: una grande occasione di profondo rinnovamento e di ripartenza per tutto il Paese, per riformare i partiti dando finalmente attuazione all’articolo 49 della Costituzione, per salvaguardare i giudici da ruoli di supplenza che non competono loro, per dare ai cittadini un’informazione attenta tanto alle inchieste quanto alle sentenze. Un’occasione che l’Italia continua a mancare ogni giorno, da 30 anni.