Milano. Sui "figli" di due mamme c'è il ricorso della Procura
Due persone dello stesso sesso non possono essere “due mamme” e “due papà”. Oltre a essere un’evidenza, sulla quale tuttavia le opinione ormai divergono profondamente, questa constatazione persino ovvia è il perno del nostro ordinamento giuridico in fatto di genitorialità. Un punto fermo che la Corte Costituzionale ha ritenuto comunque di ribadire non più tardi di quattro anni fa (nella sentenza 237 del 20 novembre 2019) dicendo che «allo stato è escluso che genitori di un figlio possano essere due persone dello stesso sesso». Data questa premessa giuridica, le conseguenze non possono che essere coerenti.
Così ieri la Procura di Milano ha impugnato i decreti del Tribunale civile che una settimana fa non avevano cancellato le trascrizioni all’anagrafe del Comune degli atti di nascita dei bambini nati in tre coppie formate da donne, concepiti con procreazione eterologa (cioè con seme di “donatore”) necessariamente all’estero visto che la nostra legge 40 pone come condizione di accesso alla provetta la differenza di sesso nella coppia. L’ottava sezione civile del Tribunale aveva distinto questi tre casi dal quarto sottoposto al suo giudizio: il padre di un bambino nato da madre surrogata in un Paese dove la pratica è legale o tollerata. La decisione del giudice era stata di annullare la trascrizione dell’atto di nascita, con il partner del papà non più “padre” all’anagrafe, almeno finché non abbia percorso la strada prevista dalla legge, cioè l’adozione in casi speciali (la coppia avrebbe rinunciato a ricorrere in appello).
Sui figli delle tre coppie di donne il tribunale aveva indicato una strada diversa, che ora la Procura ha intrapreso. Venerdì scorso l’inammissibiltà dei tre ricorsi era stata per questioni di procedura e non di merito (malgrado molti media avessero raccontato un’altra storia) lasciando di fatto in sospeso la questione: l’annullamento della trascrizione del riconoscimento – si legge in una nota del Tribunale – non può «essere realizzato attraverso il procedimento di rettificazione» essendo «necessaria l’instaurazione di una vera e propria azione volta alla rimozione dello stato di figlio». Infatti «una volta che la dichiarazione sia stata accettata, anche se per compiacenza, per errore o in violazione di legge, e sia stata annotata in calce all'atto di nascita del minore, il riconoscimento effettuato non potrà essere contestato». La Procura ha seguito l’indicazione di rotta, senza perdere tempo (si tratta di tutelare i diritti di bambini).
E ha richiamato anche la Cassazione che nel 2020 ha ribadito che non si può inserire nell’atto di nascita «di un minore nato in Italia» il «nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero, poiché nell’ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva». La stessa Suprema Corte nel 2022 aveva sancito che «l’atto dello stato civile che indichi anche la madre intenzionale è difforme dalla situazione quale è secondo la previsione delle norme vigenti». La strada è chiara: seguendo la legge i diritti legittimi sono assicurati, oltre ogni polemica.