Coronavirus. Tremonti: «Male il governo, un mese buttato»
Giulio Tremonti
«Ora è il momento delle forze migliori del Paese. Delle forze libere. È il momento dell’esperienza, del merito, della competenza. Tocca a loro cominciare a capire come venirne fuori. E non è nemmeno un fatto di età. Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill erano vecchi, Adolf Hitler e Benito Mussolini giovani, ma chi ha fatto la politica migliore?». Giulio Tremonti ragiona sul mondo nella stagione del coronavirus. Parla dei ritardi dell’Italia e dei limiti dell’Europa. E li unisce in un’unica constatazione desolata: «Mi impressiona il crollo delle classi dirigenti. La loro incapacità di capire quello che sta succedendo».
Professore, partiamo dall’Italia.
Il nostro governo e la nostra maggioranza hanno agito subito, ma solo in tv. Ricordo i leader politici e gli aperitivi milanesi, i sindaci e le cene con le bacchette cinesi. Ricordo pure la missione di un nostro viceministro che corre in Cina per ri- portare a casa un nostro connazionale costruendo l’evento mediatico. E invece c’era la Costituzione a imporre misure immediate. Andava applicata subito. Si è buttato via un mese. Solo l’8 marzo il primo provvedimento vero. Insisto: il nostro governo non è stato né più astuto né più preveggente degli altri. Siamo partiti prima perché qui da noi l’ondata è arrivata prima. Non abbiamo agito per primi siamo solo stati colpiti per primi. E poi...
E poi?
Le conseguenze di una recessione sono peggiori delle conseguenze sanitarie di un flagello o, come si usa a dire oggi, di una pandemia.
Si spieghi.
Ci saranno drammatici effetti sociali e drammatici effetti economici.
Effetti sociali che vuol dire?
Sono depressione, suicidi, violenza, alcol: questa è la casistica delle assicurazioni americane. E poi gli effetti economici. E non è solo che mancheranno due o tre mesi di economia. Il vero rischio è che quando torni non c’è la normalità. Chi compra? Chi viaggia? Sarà tutto diverso.
Il governo prova a reagire con il 'Cura Italia'.
Se fossi in Parlamento è chiaro che lo voterei. Ma vedo troppe cose che non vanno: vedo una quantità spaventosa di burocrazia. Ogni intervento si muove con regolamenti e adempimenti infernali. Così si riduce l’efficacia di un provvedimento. Così 25 miliardi non li spendi tutti. Così finisce come con il reddito di cittadinanza.
Lei che cosa avrebbe fatto?
Nel 2009 la Cassa depositi e prestiti diventa la terza banca italiana e inonda di liquidità il Paese. E viene inventata la cassa integrazione in deroga. Anche noi dicevamo «non lasceremo indietro nessuno», il nostro non era uno slogan.
Da allora a oggi che cosa è successo?
La politica ha lasciato spazio alla finanza e la finanza agli algoritmi. Penso spesso al Tempo ritrovato di Proust. Ci ho pensato anche davanti alle ultime parole di Christine Lagarde, la presidente della Banca centrale europea: «Datemi una buona politica vi darò una buona finanza». Non c’è buona politica e oggi raccogliamo i frutti avvelenati di una globalizzazione senza regole.
La Bce sul banco degli imputati?
Il quantitative easing iniziato nel 2012 aveva senso come intervento di pronto soccorso, prolungarlo per otto anni e trasformarlo in una lunga degenza ha finito per rendere la cura peggiore dello stesso male.
L’Europa ora ci permette di spendere 25 miliardi.
È curioso che si dica «l’Europa ci permette ». Sono soldi nostri, non sono europei. Anzi è un debito nostro. Sarà altro deficit che peserà sulle spalle del Paese.
E ci esporrà a rischi?
Esattamente. Il grande rischio dello spread, dei mercati finanziari.
Lei come si muoverebbe?
Se ci fosse la politica si farebbero gli eurobond.
Crede che Bruxelles proverà a condizionare l’Italia? A dire sì a uno sforamento, ma solo per alcune misure?
Non c’è solo Bruxelles, c’è una quinta colonna interna. C’è una grossa quota della tecnopolitica che sta sull’asse Roma-Bruxelles. Ma attenzione: soluzione autoritarie anche soft rischiano di avere effetti dirompenti: penso alla spaccatura del Paese e a una nuova riedizione del gran libro Nord contro il Sud.
Lei insiste sul fallimento delle classi dirigenti...
Un totale fallimento. In otto anni non c’è stata una politica economica, un’idea di riforma, un progetto. In nessuno Stato dell’Europa. Nulla, nulla, nulla. Tutti narcotizzati dall’oppio fabbricato e spacciato da Francoforte. Ma ora questa crisi ci mette davanti i demoni e ci impone un cambio di passo. Tutto sarà diverso. «Uno vale uno uno» è finito. Serve competenza, esperienza, servono contatti internazionali veri. E nessuno avrà più il coraggio di pensare che la casalinga di Voghera possa far meglio sul bilancio dello Stato di qualsiasi ministro del Tesoro.