A più di trent’anni dalla legge Basaglia (quella che, tra l’altro, ha determinato la chiusura progressiva dei «manicomi»), psichiatri e familiari chiedono a gran voce di «mettere da parte le strumentalizzazioni politiche» e di riformare le norme sull’assistenza alle persone che soffrono di disturbi mentali. In un convegno organizzato nell’ambito della fiera internazionale Sanit 2009, conclusasi ieri a Roma, un gruppo di medici e studiosi, coordinato da Tonino Cantelmi, presidente degli psichiatri cattolici, ha articolato le sue proposte: è da evitare il ritorno a luoghi di emarginazione, ma occorrono più posti letto per le emergenze, strutture per le degenze lunghe, somministrazione obbligatoria di terapie anche a domicilio o in piccole comunità, centri di prossimità - animati da volontari - per le famiglie che hanno bisogno di aiuto, meno limitazioni all’intervento d’urgenza dei medici. «È importante – spiega Cantelmi – che su questi punti si ricompattino scienziati, famiglie e politica». Un testo-base c’è e ha come primo firmatario il deputato Pdl Carlo Ciccioli, che spiega: «Non vogliamo alcuna restaurazione dei manicomi, ma, partendo dai principi della «Basaglia», inserire norme che obblighino il medico a intervenire anche in assenza del consenso del malato, allungare il trattamento sanitario obbligatorio - non per forza in ospedale - da 7 a 30 giorni, introdurre anche, per specifici casi, un obbligo di trattamento prolungato di 6 mesi rinnovabili». La proposta introdurrebbe anche il «contratto terapeutico», per cui un paziente che lucidamente dà il consenso a ricevere cure non lo può ritirare nei momenti di 'crisi'. Inoltre, rispetto alla situazione attuale, si consentirebbe ai familiari di accedere alle informazioni sulla salute del malato (ora impossibile senza il placet dell’interessato). Il punto da cui parte Ciccioli è questo: «Quale consenso alle cure può dare una persona che nella gran parte dei casi non sa di averne bisogno?». La proposta di legge fa poi perno sul fatto che gli attuali giorni di trattamento sanitario obbligatorio (sette) sarebbero insufficienti per andare a fondo del disturbo psichico. Ma nel dibattito politico e scientifico non mancano le polemiche e le accuse di «ritorno al passato». Il punto è proprio questo: sottrarre la questione a guerre ideologiche, e rimettere al centro i malati e chi li assiste. Ci prova Francesco Bruno, titolare della cattedra di Scienze psichiatriche presso l’università La Sapienza di Roma: «Il bilancio della Basaglia è molto positivo per gli aspetti culturali, perché abbiamo avuto il coraggio di dichiarare che il malato di mente è un uomo». Ma, continua, ci sono aspetti negativi: «Ci siamo sganciati dal resto del mondo sulla ricerca neurobiologica, e abbiamo lasciato il malato a se stesso, facendo un danno a lui, ai suoi cari e alla sua società». La contraddizione è tutta in una frase: «Li abbiamo tolti dai manicomi per mandarli in carcere». E anche quando non si trovano in galera, ma in ospedale, la vita non è facile: «Con le norme attuali, non possiamo nemmeno chiudere le porte del reparto in cui sono ricoverati, saremmo accusati di sequestro di persona. Una razionalizzazione è necessaria». Una situazione che fa ipotizzare a Vincenzo Rapisarda, dell’università di Catania, tre passi immediati: «Raddoppiare i posti-letto, potenziare la ricerca e assicurare la libera scelta delle strutture». Un punto, quest’ultimo, su cui battono molto le associazioni dei familiari presenti al convegno, che contestano l’obbligo di ricorrere ai presidi medici territoriali. «La gran parte dei pazienti – spiegano – non si fa curare proprio per la vergogna di doversi rivolgere a chi li conosce».