Cafiero de Raho. «Mafia, così lo Stato ha fatto squadra»
Il corteo di Libera contro le mafie a Bari, nel marzo 2021
Oggi il Csm voterà il nuovo Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Tre i candidati alla successione a Federico Cafiero de Raho andato in pensione dopo quasi cinque anni alla guida della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo: il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, il procuratore aggiunto della Dna, Giovanni Russo, a lungo vice di Cafiero de Raho. L’intervista, la prima dopo essere andato in pensione (ma lui non si sente pensionato), è come un passaggio di testimone, quasi un invito a mantenere quello spirito di squadra che ha sempre caratterizzato il suo lavoro. Ma anche l’assicurazione che l’ormai ex procuratore non intende fare passi indietro e continuerà il suo impegno a fianco dei cittadini.
«Non mi sento pensionato. Non so proprio cosa significhi pensione». Non è una battuta quella di Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo fino al 18 febbraio quando, raggiunti i 70 anni (ma non li dimostra), è dovuto andare in pensione dopo 45 anni in magistratura, con incarichi da prima linea, come procuratore aggiunto a Napoli, nella lotta al clan dei 'Casalesi', poi procuratore a Reggio Calabria, protagonista di alcune delle più importanti inchieste contro la ’ndrangheta. Ma soprattutto «uomo squadra», grande appassionato di calcio spesso definito «un grande capitano» dai suoi colleghi. E al lavoro di squadra certo non rinuncia. «Certamente chi vive di squadra, continua a vivere in squadra. Troverò delle squadre diverse per poter contribuire al miglioramento della nostra società e soprattutto per contrastare illegalità, mafia, ’ndrangheta, camorra. Essere vicino alle persone e tentare di espormi al loro posto così come ho sempre tentato di fare».
Federico Cafiero de Raho - Ansa
Lei hai combattuto sia la camorra dei Casalesi che la ’ndrangheta, considerate le mafie più moderne e potenti, e lo hai fatto con ottimi risultati. Quale è stata la ricetta vincente?
Credo che alla base di un contrasto efficace sia necessaria la volontà di costituire una squadra che creda realmente nella possibilità di battere le mafie. Una squadra che non è solo quella del procuratore e dei sostituti procuratori che gli sono a fianco, che è, comunque, fondamentale per tutelare chi crede nello Stato e nelle regole e non soggiace alle mafie.
E chi altro c’è nella squadra?
Bisogna muoversi con la vicinanza nei confronti della popolazione che soffre e su- bisce, in modo tale da creare quasi un collegamento diretto. Il che vuol dire partecipare a pubblici incontri, essere vicino alla gente che si muove nelle associazioni sui temi della legalità e dell’antiracket, che crede che effettivamente la cultura della legalità possa portare a un cambiamento. Non solo nell’ambito di un ufficio di Procura ma con il questore, i comandanti provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.
La 'squadra Stato'?
A volte si è abusato della definizione, io invece ho sempre creduto nella 'squadra Stato' che è fatta da magistrati, da poliziotti, carabinieri, finanzieri. Fare in modo che insieme si lavori e che ciascuna attività investigativa sia conosciuta anche dagli altri in modo possa essere una sollecitazione a parteciparvi o comunque a non interferire in essa, ma sostenerla. Così si è creata una coesione, sia a Napoli che a Reggio Calabria. Nei territori dove le mafie sono più forti. E a Reggio Calabria è stata ancora più intensa.
Perché?
Perché vi era una vera e propria frattura tra coloro che erano vicino alla ’ndrangheta e coloro invece che se ne erano allontanati e reagivano, a volte soltanto con il loro comportamento, a volte invece con modalità che riuscivano anche a sostenere le iniziative investigative. Anche loro sono la 'squadra Stato', anche i cittadini, tutti insieme. Sentire che ce la si può fare. Se noi riusciamo a crederci veramente, sicuramente l’obiettivo lo raggiungiamo. Probabilmente non riusciamo ad annientare subito le mafie, ma un passo in avanti straordinario lo si avrà. Le persone quando non sanno con chi devono rapportarsi, sono in silenzio, nascosti, e quasi non li si riesce ad individuare. Quando invece si crea questa 'squadra Stato' che vuole coinvolgere i cittadini, anche quelli più timorosi vengono fuori perché vedono che ce ne sono tanti altri. si riconoscono e sono pronti ad operare. Questo è stato il cambiamento che ho percepito nei territori in cui ho lavorato. La modalità è sempre quella. Anche tenendo la porta aperta, in modo che chi ha bisogno di rappresentare alcuni pericoli o alcune violenze, lo possa fare senza esporsi.
Ma molti hanno paura, temono reazioni dei mafiosi.
Una denuncia o viene fatta da tutti coloro che si trovano in un certo contesto e subiscono le stesse azioni, oppure bisogna che allo stesso risultato si arrivi in modo diverso, attraverso una grande attività investigativa che non parta dal cittadino. Il cittadino, nei territori di mafia, laddove la ferocia è ancora lo strumento per soggiogare la popolazione, non deve essere costretto a denunciare ma limitarsi a segnalare determinate situazioni. Poi tocca alla magistratura, assieme alle forze di polizia, essere capace di acquisire in altro modo gli elementi idonei a portare avanti una strategia di contrasto forte in grado di allargarsi su un intero settore. Le organizzazioni mafiose esercitano le estorsioni a tappeto e quindi esporre un solo cittadino è sicuramente pericoloso, invece comprendere il meccanismo, sapere per esempio che i soldi vengono acquisiti attraverso un sacco di un soggetto che passa e raccoglie negozio per negozio, è informazione importante e non c’è bisogno che lo dica il denunciante, basta osservare, fotografare, esercitare l’attività di approfondimento investigativo.
Questo vale ovunque?
Questo è stato il metodo che ho utilizzato per il clan dei 'Casalesi' e in Calabria. Le persone lo avevano capito e si fidavano. Erano in grado di presentarsi e raccontare il loro problema. E noi proprio grazie a quella 'squadra Stato' facevamo in modo di attivare quelle iniziative investigative necessarie per inquadrare il fenomeno criminoso e aggredirlo. Questo a Reggio Calabria è stato veramente produttivo. Negli ultimi tempi venivano anche titolari di grandi aziende agricole a rappresentare estorsioni che subivano da anni. Avevano cominciato a fidarsi, a capire che potevano parlare senza esporsi.
Lei dal 1989 vive sotto scorta. Tanti sacrifici per lei, la sua famiglia, la sua libertà. Ne valeva la pena?
Il magistrato deve essere l’uomo che garantisce i diritti e garantire i diritti significa essere avanti agli altri per soddisfare le loro esigenze e tutelarli. Dunque ne è sempre valsa la pena. Rivedere il sorriso sul volto di chi invece piangeva per le prepotenze e le violenze che subiva, è già la più grande gratificazione che si possa avere. Ancora oggi ci sono tante persone che mi mandano messaggi, che mi vogliono bene per come ho svolto il mio lavoro. Io ho pensato di operare nel modo migliore nell’interesse dello Stato, della collettività e delle singole persone che soffrivano.
Ci sono stati momenti difficili da un punto di vista non solo professionale ma anche umano?
Il nostro primo giudice è la nostra coscienza e quindi, malgrado minacce e intimidazioni, questo non mi ha mai toccato perché adempiendo al proprio dovere sempre con disciplina e onore, come dice la nostra Costituzione, non ho mai temuto o avuto preoccupazioni. E soprattutto ho avuto una famiglia al fianco, mia moglie, le mie figlie, persone con le quali si vive nell’amore e nella condivisione. E poi ho sempre avuto colleghi che, come dicevo, hanno vissuto con me come in una squadra. E la squadra tende sempre a raggiungere il risultato di vincere, e vincere per un ufficio giudiziario significa conseguire risultati utili nel contrasto alle mafie. E credo che questo è sempre stato assicurato.