Centro Italia. Macerie, paura e spettri. Il terremoto due anni dopo
La Zona rossa, con il corso principale invaso dalle macerie, nel centro storico della stessa cittadina a dodici chilometri da Amatrice (foto P. Ciociola)
Sole e pioggia qui non sono diversi. Neppure il tempo, cristallizzatosi. La 'Zona rossa', sempre e dovunque presidiata dai soldati, quella di Amatrice o di Accumoli o di Arquata o Pescara del Tronto o di frazioni e comuni spezzati dal terremoto – dai terremoti – nel centro Italia, non fa troppa differenza. È buio anche di giorno. È ancora brandelli sospesi di vite. Ancora macerie. Ricordi. Lacrime. Scricchiolii sotto i piedi a ogni passo. Troppo, qui, è ancora. S’incontrano gli spettri. Avanzi di materassi e di letti e di mobili appesi a calcinacci affacciati nel vuoto. Tendine sfilacciate da due anni di vento spinte fin fuori gli scheletri delle finestre disallineate coi muri. Giacche e vestiti affacciati sul vuoto dall’armadio in equilibrio su un pavimento aperto in due, gli stessi di due anni fa, appena più rovinati e sporchi. Briciole ammucchiate e sparse d’edifici, erba nelle spaccature delle strade.
Cielo azzurro e lacerato. Le ombre del sangue e della Signora in nero, nascoste dietro le porte strappate. In cima a ringhiere e solette di balconi attorcigliate e sospese nell’aria. Fra reti di letto diventate ferraglia informe. Alle spalle di ante che si muovono, cigolano e ancora, soffiando, si lamentano. S’incontra il silenzio. Pesante. Denso. Che rimbomba. Che è aggrappato dappertutto, come certi rumori che lo sguardo e la suggestione rendono quasi reali. Il vociare della gente che cammina dove ora camminiamo, le risa di bambini, l’eco di una birra insieme al bar o delle donne che fanno la spesa. Bottiglie d’acqua sono accatastate a terra in una nicchia, sotto un po’ di calcinacci, addossate al muro, la plastica della confezione strappata, ma le stringe ancora. Rassicurano, magari tra poco qualcuno verrà a prendersele. Magari. Intorno a quel muro, davanti, c’è polvere e nulla.
Il retro di un alimentari, quel che ne resta, ad Accumoli. Il 'Centro commerciale Monti della Lagà è una struttura provvisoria sulla Salaria e i negozianti proprio di Accumoli, alcuni, adesso sono in questa struttura. Gli affari però non vanno, ormai poca gente viene da queste parti e il sindaco, Stefano Petrucci, non vede affatto bene il futuro prossimo: «Manca la gente delle seconde case ed è questa che fa girare l’economia nei nostri territori, vivevamo preparando il lavoro nel week end – spiega –. Abbiamo riaperto con tanta fatica le attività commerciali, rischiamo di richiuderle entro l’anno. I nostri numeri sono talmente esigui...». E significherebbe spopolamento. «Sicuramente».
Salendo fra questi paesi, Salaria a parte, dimentichi la quarta e sui tornantini anche la terza. C’è un bel ruscello ai piedi di Retrosi (frazioncina inginocchiata di Amatrice), anche qui sotto, accanto all’acqua che scorre fra i sassi, si vede la distruzione. Si scorgono gli escavatori, le ruspe, i macchinari col lungo nastro che sminuzzano le macerie per poterle caricare sui camion. Hanno cominciato a portarle via quasi dappertutto, almeno dalle 'periferie' di questi paesini. Ma due anni dopo ne restano ancora troppe e non trop- po è stato fatto.
Colpa della burocrazia e di uno Stato che qui spiegano di sentire «lontano». Colpa anche di chi è diviso e divide, di chi a volte è troppo preoccupato del proprio orticello, di chi a volte è troppo preso da certe pieghe di normative vecchie e nuove. Di chi non capisce che la barca che tornerà a navigare oppure affonderà per ciascuno è la stessa. L’'emergenza' è ricordo da un pezzo, eppure agli occhi sembra neanche appena passata.
Una grande casa era costruita quasi a strapiombo sulla curva a destra della piccola strada che, pochi metri più avanti, entra a Retrosi. Metà è sventrata. Puntellata. Una carcassa senza nemmeno più sofferenza. Colpita a morte il 24 agosto del 2016, sbattuta violentemente di nuovo il 30 ottobre e poi il 18 gennaio 2017. Anche i suoi resti li raccoglieranno e porteranno via solo fra qualche tempo. Mille altre stanno così nel raggio d’una trentina chilometri. La parte più martoriata del cratere da quella prima, violentissima, scossa nel Centro Italia alle 3 e 36 di una notte d’agosto, lunga centoquarantadue secondi, che fu sentita da Rimini a Napoli.
E fece una strage spazzando via 302 vite, 238 delle quali ad Amatrice e 11 ad Accumoli. Già, Amatrice. Dove nel fine settimana i ristoranti sono stracolmi e nell’area food, che si chiama 'Piazza del Gusto, della Tradizione e della Solidarietà', da mezzogiorno non si riesce più a parcheggiare. Dove i residenti sono rimasti meno di mille ed erano duemilacinquecento. Dove il centro storico, raso letteralmente al suolo, è ancora una distesa di macerie sulla quale, proprio a metà corso Umberto, riaperto alle auto quattro mesi fa, campeggia la Torre civica (di cui si parla già in un documento del 1293). S’è fatta beffe dei terremoti, ha tenuto duro, raccontano che le sue fondamenta siano profonde tanto quanto la sua altezza.
C’è un pochino di malumore che forse in questi giorni troverà risposte. Va bene la ricostruzione, va bene gli edifici, l’economia ma forse «si pensa troppo poco a chi è morto», ripete qualcuno. Mentre dal 24 agosto di due anni fa le vite rischiano di disallinearsi come i muri maestri e le colonne con le fondamenta di questi edifici. Mentre scorrono spesso insieme alla paura. O alla riconoscenza. «In questo anniversario voglio ricordare tutti i morti e mandare un bacio a Rosella Duci», dice Emanuela Pandolfi, che nella cittadina amatriciana quella notte ha perso il marito, tanti amici e non ricorda come si ritrovò in strada scalza e solo con una maglietta indosso.
Prende la sua borsa, tira fuori una coccinella fatta con le perline. «Rosella era un’istituzione ad Amatrice, la conoscevano tutti. Mi regalò questa coccinella la mattina del 23, l’aveva fatta lei, faceva questi lavori, e mi disse 'Vedrai, ti porterà fortuna'. Dopo quattro terremoti sono ancora qui. Viva. Voglio mandarle un pensiero speciale». Bacia la coccinella, rivolge lo sguardo al cielo. Fatica, Emanuela, a trattenere il groppo che ha in gola. A chiederle il desiderio più grande, potessero esaudirglielo, risponde «tornare indietro. Riavere le persone, del resto, le case, le cose, non mi importa. Tutto si può ricostruire, le persone no. Mi manca la vita che era prima, mi mancano tutti quanti, chi mi era più caro e quelli con cui avevo meno confidenza, non importa». Il pomeriggio sta piovendo, la sera fa freddo.
Intorno piazza Sagnotti, ad Amatrice, è ancora pieno macerie. Col buio sono appena illuminate dalla luce fioca, gialla, dei lampioni. C’è ancora una Panda bianca sepolta per metà da calcinacci e mattoni. Si vedono, qui e là, quaderni, scarpe, magliette, pentole, termosifoni e pezzi di vita in casa. Stasera anche due lumini, a batteria, bagnati d’umidità e pioggia, col volto di Cristo. Uno ha la lucina in plastica rossa spenta, l’altro ce l’ha blu ed è acceso. Ancora.
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