Bologna. L'utero in affitto «legalizzato». Altra coppia assolta
Maternità surrogata, ancora assoluzione. Nonostante il divieto penale imposto in Italia dalla legge 40/2004. E nonostante settimana scorsa, alla Camera, un incontro internazionale promosso dalle femministe di 'Se non ora quando. Libere' ha chiesto alle Nazioni Unite di condannare l’utero in affitto quale pratica contraria alla Cedaw, la Convenzione internazionale contro lo sfruttamento delle donne. La sentenza resa nota ieri è stata pronunciata dal tribunale di Bologna, che ha mandato esenti da sanzione penale due coniugi di 57 (lui) e 44 anni (lei): nel 2012 avevano fatto nascere un bimbo a Kiev (Ucraina), dopo averlo commissionato nel 2010 a una clinica specializzata con regolare contratto (regolare per quel Paese, non certo per l’Italia).
Stavolta, la tesi difensiva accolta dal tribunale ha giocato proprio sul dibattito politico scaturito dalla precedenti pronunce: se qualcuno ha proposto di chiarire l’attuale norma, esplicitando l’esistenza del reato anche qualora sia commesso all’estero, allora significa che la legge non è per nulla chiara. Dunque nel dubbio bisogna assolvere. Questa in sintesi la tesi dell’avvocato Giorgio Muccio, accolta in un procedimento penale nel quale già il Pm Marco Forte aveva chiesto il minimo della pena. Ma oltre che per la violazione della legge 40, la coppia era accusata anche del reato di alterazione di stato civile di minore. Per la legge italiana, infatti, madre è colei che partorisce.
Non certo chi stipula insieme al marito un contratto per ottenere un bimbo con il seme di lui, gli ovociti di un’altra donna, e il ventre di un’altra ancora: esattamente quanto avvenuto in questo, e in decine di altri casi. Ed ecco la motivazione giuridica: per assolvere, sul punto, il tribunale ha sostenuto che il certificato di nascita era stato validamente redatto secondo la legge del Paese estero. Dunque l’Italia avrebbe dovuto riconoscerlo a norma del diritto internazionale. In effetti questo afferma la legge invocata, ma con un limite: quello dell’ordine pubblico. Se infatti l’atto estero contrasta con i principi fondamentali del nostro ordinamento, in patria non può valere.
E che il divieto di maternità surrogata sia di ordine pubblico l’ha detto chiaramente la Corte di cassazione, massima magistratura a cui dovrebbero uniformarsi tutti gli organismi giudiziari inferiori, tribunali in primis: il principio è contenuto nella sentenza 24001/2014, laddove si afferma che l’utero in affitto - essendo punito addirittura con sanzione penale - non può in alcun modo trovare casa in Italia. Non solo. La stessa pronuncia, confutando l’obiezione per cui, una volta ottenuto, il miglior interesse del minore sarebbe quello di rimanere con chi l’ha 'comprato', chiarisce che in verità la massima aspettativa del bimbo è quella di esser dichiarato figlio di coloro che sono genitori per legge: dunque padre e madre o biologici, o adottivi. In ogni caso, non di coloro che hanno prodotto la nuova vita attraverso un contratto commerciale.
Significativo anche il fatto che, nel dicembre 2015, l’utero in affitto è stato condannato anche dal Parlamento Europeo in seduta plenaria. E che, non più tardi dello scorso gennaio, un placet alla legge italiana contro la surrogazione di maternità è stato vergato dalla Grande Chambre di Strasburgo, il massimo organo che vigila sulla Convenzione europea per i diritti dell’uomo.