Profezia è storia /12. E la preghiera divenne corpo
Noi cerchiamo un altro Dio, che non meni vanto di questo mondo infelice. Abbiamo bisogno di cambiare Dio per conservarlo, e perché lui conservi noi
Paolo de Benedetti, Quale Dio?
I profeti si formano nella zona liminare tra la vita e la morte. È lì che apprendono il loro "mestiere". Sono perennemente in bilico, funamboli tra il già e il non ancora, esposti sul confine fondamentale e decisivo della condizione umana. La Bibbia sa che chi vede Dio muore. Il profeta "vede" Dio, lo ha visto o quantomeno udito nel giorno della sua chiamata. La vocazione profetica è insieme Tabor, Golgota e sepolcro vuoto: si vede Dio, si muore, si risorge. Il secondo episodio della missione di Elia è la risurrezione di un ragazzo. Ancora sospeso tra la vita e la morte: «In seguito accadde che il figlio della padrona di casa si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che spirò» (1 Re 17,17). Avevamo lasciato Elia nel miracolo della moltiplicazione del pane e dell’olio, che salva la vedova e suo figlio dalla morte per fame. Ora a quella vedova (o forse un’altra: non sappiamo se originariamente i due racconti fossero o no separati) il figlio si ammala e muore. Una scena che ritroveremo più volte anche nel Nuovo Testamento, che sarebbe stato molto diverso senza Elia.
La madre è la prima a parlare: «Allora lei disse a Elia: "Che cosa c’è tra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?"» (17,18). Era esperienza molto comune nell’antichità che la presenza di un uomo religioso – un sacerdote o un profeta – durante eventi drammatici e disgrazie fosse interpretata come condanna e colpa. Soprattutto quando la persona religiosa era un maschio e quella al centro della sventura era un povero o una donna, i segni del sacro diventavano spesso cupi e minacciosi. Anche oggi, nei grandi dolori la presenza della religione non è immediatamente sacramento che riduce il dolore e consola. Come per quella donna, la prima reazione può essere la rabbia, la paura e l’attivazione di sensi di colpa che sono sempre i primi ad arrivare con le nostre disgrazie. Quante volte abbiamo assistito alle reazioni drammatiche dei parenti nei confronti del sacerdote che arriva in una casa nell’ora muta dei demoni del lutto. Quel prete può diventare l’immagine di un Dio crudele che ha strappato un figlio o un fratello. Attorno a quell’uomo religioso si alza una cortina invisibile ma realissima di imbarazzo; qualche volta si elevano persino urla, maledizioni, imprecazioni. È parte della maturazione di sacerdoti e suore saper accogliere quelle maledizioni e riuscire a leggerle come una forma alta di preghiera.
In quel mondo arcaico, la presenza di Elia fa sì che la madre legga la sventura come un’irruzione di Dio nella sua vita, come una conseguenza della sua colpa. Non sappiamo quale fosse la colpa, forse la normale condizione umana che gli antichi leggevano come segnata da una colpevolezza radicale. Nonostante tutta la rivelazione biblica e poi il cristianesimo che ci ha detto che Dio è agape, anche noi continuiamo ancora a leggere le disgrazie come colpa – "se lo avessi accompagnato", "se gli avessi detto di no", "è la punizione per la mia vita sbagliata"... I sensi di colpa sono la prima moneta con cui paghiamo i conti dei nostri funerali. Arrivano da soli, sono iscritti nei nostri cromosomi culturali. La religione economico-retributiva è infatti molto più antica e quindi radicata nel cuore individuale e collettivo della religione dell’amore e della grazia. Ecco perché ci servono i profeti. I profeti si mettono accanto a noi. Fanno silenzio, non ci fanno prediche né discorsetti consolatori, ci donano un Dio liberato dalle colpe e dai meriti, tutto grazia e misericordia. Lo fanno con la parola, ma soprattutto col corpo: con un abbraccio lungo e tenace, condividendo un pasto di lacrime e sale, standoci vicini, silenziosi, in quei sabati santi che non finiscono mai. Mi ci è voluta una vita intera – mi confidava un amico sacerdote – per capire che le persone che vivono grandi dolori da noi non cercano parole, cercano un corpo che sa vivere lo stabat.
«Elia le disse: "Dammi tuo figlio"» (17,19). Davanti al dolore più grande che la terra conosce, e che riesce con grande fatica a sostenere, Elia prende il corpo del figlio tra le sue braccia. Non fa una predica: agisce, abbraccia. È questa la sola "parola" che vorremmo sentire dall’uomo di Dio che entra nella stanza del figlio. «Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto» (17,19). Quella mamma teneva il figlio, il "ragazzo" (yeled) morto, sul suo seno. Una scena meravigliosa, di una umanità infinita. Se gli uomini e le leggi non glielo impedissero, le madri continuerebbero a tenere i loro bambini morti sul loro seno per sempre, in attesa che un Dio o un profeta passi e lo risorga. E se un giorno qualcuno ha potuto scrivere parole immense sull’amore di Dio per noi, è perché aveva visto e imparato l’agape nelle madri che continuavano a tenere i loro bambini sul loro seno, che non hanno mai smesso di farlo - le donne amano molto l’icona di Maria con il bambino perché quel piccolo Gesù è anche l’immagine dei loro figli, di quelli vivi e ancor più di quelli morti.
Solo a questo punto Elia inizia a pregare: «Quindi Elia invocò il Signore: "Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?"» (17,20). Questa è la preghiera diversa dei profeti, dove spicca quel: "Vuoi fare del male anche a questa vedova?". Questa preghiera inizia con una protesta, con un rimprovero a Dio che ha fatto del male anche (quindi non solo) alla sua ospite. Il Dio biblico fa il bene, ma fa anche il male. Elia si mette dalla parte della vedova e del ragazzo, e chiede a Dio di cambiare, gli chiede di "convertirsi". Non consola la donna invitandola ad accettare "la volontà di Dio" o il suo destino. Queste cose le facciamo noi, perché non sappiamo fare altro. Il profeta no: solidarizza con la madre e protesta con Dio, chiedendogli di cambiare. Considera Dio il responsabile della morte del figlio, perché altrimenti sarebbe un feticcio. E come Giobbe, Elia non ricorre alla teologia economica e meritocratica per salvare la giustizia di Dio. Non pensa che gli uomini siano i soli responsabili delle loro sventure – tutte le morti di ragazzi sono morti ingiuste perché innocenti. Elia chiede a Dio di "svegliarsi", di ricordarsi del suo nome che è diverso da quello degli idoli anche perché non vuole la morte dei nostri figli. I profeti, per assurdo, preferiscono essere scomunicati da Dio che sacrificare un ragazzo. Abramo obbedisce a Dio e conduce suo figlio sul monte Moria. Il profeta invece protesta, litiga con Dio, e non porta il figlio sull’altare – se vogliamo un profeta in quella scena tremenda lo possiamo trovare nell’ariete.
Nelle grandi crisi e nei dolori insostenibili il profeta si mette accanto a noi e chiede a Dio di mostrarsi buono almeno quanto una madre. Mentre ci insegna le parole di Dio, guarda il meglio degli uomini e lo indica, lo insegna, a Dio. Se la Bibbia, alla fine, ci ha potuto donare l’immagine di Dio che si commuove per il figlio tornato, che si china sulla vittima nella strada per Gerico, è perché i profeti avevano osato chiedere a Dio di scendere dai cieli e di diventare buono almeno quanto le madri. I falsi profeti per difendere Dio condannano gli uomini. I profeti veri sanno invece che l’unico modo per salvare e proteggere veramente Dio è proteggere e salvare veramente gli uomini – soprattutto i figli. I profeti sono gli amici di Dio, hanno una intimità unica con l’assoluto. Sta qui il loro mistero. Questo episodio ci dice che il primo compito dei profeti è usare quella loro intimità divina per salvare i nostri figli.
«Elia si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: "Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo"» (17,21). Molto suggestivo è l’uso che Elia fa del suo corpo per provare a "risorgere’" il ragazzo. Si distende per tre volte sul ragazzo con l’intera estensione del proprio corpo, come per ridonargli la vita per contatto, per osmosi. I profeti guariscono e risuscitano con tutto il loro corpo. Le loro parole sono diverse e performative perché, prima, sono parole incarnate, sono parole di carne. Troppi "morti" non risorgono perché non siamo capaci di usare tutto il corpo, illudendoci che bastino le parole (la grande illusione di chi scrive e magari commenta i profeti è pensare che gli uomini si possono salvare solo scrivendo parole). L’inizio della storia di Elia ci dice che i miracoli possono avvenire solo dopo aver messo, per tre volte, tutto il nostro corpo sul corpo di chi era, o sembrava, morto. Troppi morti restano morti o muoiono davvero perché abbiamo paura di distenderci su di essi, cioè di toccarli, di abbracciarli – in quella cultura i morti non si potevano toccare, erano impuri: non per i profeti. San Francesco ci ha donato parole splendide, ma la parola che risuscitò Assisi e il mondo fu il suo bacio al corpo straziato del lebbroso.
La parola della preghiera deve arrivare assieme alla parola del corpo. In certe via crucis possiamo anche vedere gli "angeli salire e scendere sul figlio dell’uomo", ma finché non vediamo un corpo di uomo non riusciamo a riconoscere Dio: «La donna disse a Elia: "Ora so veramente che tu sei uomo di Dio"» (17,24). Dio per poterci salvare non è diventato un angelo, si è fatto uomo: carne e corpo. Sta qui il grande valore del corpo nell’umanesimo biblico. Quando la preghiera diventa corpo possiamo superare gli angeli. Elia è il profeta della preghiera potente perché prega con tutto il corpo. È commovente rivederlo mentre prega disteso sul corpo di quel ragazzo. Perché in lui e con lui rivediamo altri profeti che oggi continuano a far risorgere bambini, donne e uomini – nelle guerre, nei campi di accoglienza, nei mari – usando il loro corpo come prima preghiera: condividendo la stessa miseria, le stesse malattie, le stesse resurrezioni, la stessa morte. I ragazzi continuano a morire. Le loro madri e i loro padri continuano a disperarsi e qualche volta a maledire Dio e i suoi profeti. Il gesto di Elia continua a ricordarci che se un giorno vorremo salvare un figlio dalla morte del corpo o dell’anima lo potremo fare solo distendendoci su di lui con tutto il nostro corpo. Per tre volte, non una di meno.
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