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Il caso. Lorena, che sognava d'essere medico, e le “attenuanti” di un femminicidio

Viviana Daloiso lunedì 22 luglio 2024

Lorena Quaranta in una foto di famiglia

Nella loro casa vicino ad Agrigento, che è diventata una specie di memoriale con tanto di scritte e targhe sui muri e gigantografie, i genitori di Lorena non si danno pace: «L'hanno uccisa due volte. E se questo è possibile, vuol dire che quel che è successo a nostra figlia non è servito a nulla, che può ripetersi». Quel che è successo a Lorena Quaranta, il 31 marzo del 2020, è stato diventare la vittima dell'uomo che diceva d'amarla: si chiama Antonio De Pace, nella villetta dove i due vivevano a Furci siculo, nel Messinese, tra i due era scoppiata una lite. Poi l'orrore: le mani al collo della giovane, fino a toglierle il fiato, poi il tentativo di suicidio (non riuscito), infine la chiamata ai carabinieri. Per quel femminicidio, Antonio è stato condannato all'ergastolo. O meglio, era stato condannato all'ergastolo, perché la Cassazione ha annullato tutto chiedendo che siano valutate quelle che in gergo giuridico si chiamano le “attenuanti generiche”. Ovvero il fatto che il giovane infermiere sarebbe stato «stressato a causa del Covid e del lockdown».

Una vicenda che ha sollevato un vespaio di polemiche, oltre che lo sdegno comprensibile della famiglia: «Non solo per mia figlia - spiega papà Vincenzo -, ma per tutte le donne che vengono uccise dagli uomini. È una giustizia malata. Lottiamo ogni giorno contro i femminicidi, con le associazioni andiamo nelle scuole a parlare di violenza, ma se si lotta contro tutto questo e poi arriva la giustizia a buttare tutto in aria, abbiamo perso». Ricorda i messaggi sul telefonino di Lorena, suo padre, lo “stress” «che non c'era visto che durante il lockdown (che era iniziato da appena venti giorni) Antonio usciva tutte le sere per andare a giocare con gli amici alla Playstation». Piuttosto, il giovane non si sentiva all'altezza della ragazza, «lei era quasi laureata in Medicina, lui specializzando in Scienze infermieristiche» spiega ancora papà Vincenzo. La paura d'essere “meno” di una donna, o forse quella che lei potesse andarsene, lasciarlo, viste le sue ambizioni di crescere, di studiare ancora, di diventare ginecologa, hanno scatenato la sua furia: prima di soffocarla, Antonio ha colpito a lungo Lorena con una lampada, fino a spaccarle i denti. Un racconto straziante che si scontra frontalmente con le gelide motivazioni della corte: «Deve stimarsi - vi si legge - che i giudici di merito non abbiano compiutamente verificato se, data la specificità del contesto, possa, ed in quale misura, ascriversi all'imputato di non avere “efficacemente tentato di contrastare” lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell'emergenza pandemica con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale».

Non è la prima volta, d'altronde, che di una violenza contro una donna (stupri e addirittura femminicidi) giudici e tribunali riescano a vedere le “attenuanti”: nel 2020 fece scalpore la sentenza pronunciata dalla Corte d'assise di Brescia che arrivò ad assolvere un uomo che aveva ucciso la propria moglie in quanto vittima di «un totale vizio di mente dovuto a un delirio di gelosia». E ancora, un anno prima, la Corte d'appello di Bologna aveva dimezzato la pena comminata a una altro uomo che aveva ucciso la sua compagna perché a spingerlo era stata una «soverchiante tempesta emotiva» (una decisione ribaltata dopo il ricorso della Procura generale, annullata in quel caso da parte della Cassazione: l’omicida, si stabilì alla fine, era perfettamente in grado di intendere e di volere). Come se fosse un incidente, uccidere una donna, un momento di “follia” (o peggio ancora di “stress”) dettato da motivi passionali passeggeri e non invece da un movente culturale purtroppo profondamente radicato nella nostra società per cui quella donna all'uomo appartiene, è cosa sua, non può avere sogni, non può vestirsi come vuole, non può avere ambizioni, non può studiare o crescere sul lavoro, soprattutto non può lasciarlo. Non riconoscere questa radice dal punto di vista della giustizia significa distruggere i tentativi che le famiglie devastate dal dolore, le associazioni, i centri antiviolenza, la scuola stanno mettendo in campo per cambiare la cultura della sopraffazione e dell'amore malato: che una donna venga uccisa per “stress”, e che chi l'ha uccisa debba pagare di meno per quello che ha fatto, è un messaggio fuorviante, sminuente, semplicistico. L'opposto di quello lanciato oggi dal papà di Lorena, come lo scorso novembre dall'altare di Padova dal padre di Giulia Cecchettin: che gli uomini cambino nel profondo, nel loro modo di rapportarsi con le donne e nel loro modo di amare. Che non tocchi ad altre figlie.