Coronavirus. In Lombardia le coop sociali al collasso. «Centomila utenti a rischio»
Disabili al lavoro in una cooperativa sociale
«I cooperatori non si arrendono mai. Anche quando la situazione comincia a farsi disperata, com’è ormai nella nostra regione. Per questo, noi di Confcooperative – assieme a Legacoop Lombardia – abbiamo iniziato a studiare come fabbricare in proprio, nelle nostre cooperative di produzione e lavoro, mascherine, guanti e tutti quei dispositivi di protezione individuale che da tre settimane chiediamo, invano, a governo, Regione e Protezione civile. Le cooperative sociali sono una parte decisiva e insostituibile del welfare lombardo. Senza presidi sanitari adeguati, rischiamo il collasso».
Non usa giri di parole, il presidente di Confcooperative Lombardia, Massimo Minelli. Troppo alta la posta in gioco: la tenuta del sistema-Lombardia, a partire dalla sanità e dal welfare, che l’emergenza coronavirus rischia di travolgere, e la possibilità di ripartire nel modo giusto ad emergenza superata. Minelli dà voce ad una realtà che associa circa 2.600 cooperative con oltre 540mila soci e più di 94mila occupati. Di queste, più di 1.100 (cioè oltre il 46% del totale) aderiscono a Federsolidarietà e sono cooperative sociali.
Quale è la situazione delle cooperative sociali in Lombardia?
Il 30% degli operatori nei territori di Bergamo e di Brescia è malato o in quarantena. Così come crescono i contagi fra gli utenti. Se non si interviene subito, mettendo a nostra disposizione presidi medici adeguati e istituendo nuove «zone rosse» per governare l’emergenza nelle aree dove è più grave, l’intera Lombardia rischia di essere travolta da questo tsunami.
Quanti sono gli utenti a rischio?
Centomila fra anziani, disabili, minori, donne con figli, malati psichiatrici, tossicodipendenti e altre persone fragili, ospiti nelle strutture di cooperative e fondazioni. Il rischio è di non poter più garantire alcun servizio essenziale. E che le nostre strutture diventino focolai legalizzati. Da tre settimane chiediamo – invano – alle istituzioni di avere dispositivi di protezione, a tutela di lavoratori e utenti. Da tre settimane i nostri operatori lavorano a mani nude contro il virus. Se in primissima linea ci sono medici e infermieri, ai quali va la solidarietà di tutti, appena dietro ci sono i nostri operatori.
I dispositivi di protezione, dunque, continuano a mancare...
Così, con Legacoop, stiamo pensando di produrli da noi. Sono di vitale importanza per gli operatori delle cooperative sociali, ma anche per altri ambiti come la logistica o l’agroalimentare. Il 60% del lattiero-caseario lombardo passa dalle cooperative. E anche i nostri casari si stanno ammalando. Dunque, dovremo fare da noi quello che lo Stato non sa fare. Tornando ai servizi alla persona: siamo pronti a studiare con Comuni e Ats ogni iniziativa perché le persone fragili non restino sole con i loro bisogni. Ma anche per l’assistenza domiciliare servono quei dispositivi di protezione che ci sono negati.
Possiamo fare il punto sull’impatto occupazionale?
Fra noi e Legacoop, finora sono ventunmila i lavoratori delle cooperative sociali rimasti a casa per i quali si è chiesto l’accesso al Fis (Fondo integrativo salariale). Per le altre categorie più colpite attendiamo dai nuovi provvedimenti misure di sostegno forti per i lavoratori e le cooperative.
E le nuove «zone rosse»?
È una richiesta per le zone più colpite, come Bergamo e Brescia, che Confcooperative – con Legacoop Lombardia e il suo presidente Attilio Dadda – porta avanti con forza in quasi totale solitudine. Siamo cooperative, non facciamo volontariato: dunque, siamo sensibili all’impatto economico e occupazionale di questa emergenza. Ma la nostra scala di valori è chiara: prima le persone. Prima la vita. A Codogno con la "zona rossa" hanno azzerato i contagi. Si deve fare lo stesso con gli altri focolai lombardi: per tutelare le vite umane; per evitare che uno dei migliori sistemi sanitari al mondo sia travolto; per evitare che lo stesso accada al nostro welfare; e per creare le condizioni per una ripartenza dell’economia. Fare nuove «zone rosse» è una necessità politica. Insisto: prima la vita, poi ricostruiremo! I lombardi, nativi e d’adozione, non è gente che sbraita o si piange addosso, ma gente che nella prova impara la lezione, si rimbocca le maniche. E riparte. Insieme.