Coronavirus. Astori: così lo scrittore regala parole buone
Sergio Astori, l’ideatore e di #Parolebuone
Le #ParoleBuone sono già in rete. Rintracciabili attraverso l’hashtag su Facebook, ma disseminate in qualsiasi altra sede riescano a trovare ospitalità.
«Ci sarà anche una versione in Lis, la lingua italiana dei segni che ogni giorno vediamo utilizzata durante la conferenza stampa della Protezione civile», spiega Sergio Astori, che dell’iniziativa è l’ideatore e il curatore insieme con un gruppo molto ampio di esperti. Docente presso la facoltà di Psicologia della Cattolica di Milano, psichiatra e psicoterapeuta, Astori è autore di diversi libri, tra cui un saggio divulgativo sulla Resilienza edito da San Paolo nel 2017. «Da quando è cominciata l’emergenza molti lettori mi hanno cercato chiedendomi una parola buona – racconta – È un’espressione che mi ha colpito e a partire dalla quale ho provato a immaginare un percorso condiviso».
È un modo di rispondere all’urgenza del momento? Sì, ma anche di guardare al futuro, alla ricostruzione che comunque ci aspetta. In questi giorni mi è capitato di ripensare spesso a un altro episodio di sospensione dell’esistenza personale e collettiva. Da lombardo, conservo un ricordo molto vivo della grande nevicata del 1985: la città bloccata, l’impossibilità di muoversi, le famiglie chiuse nei loro appartamenti.
Stiamo aspettando il disgelo? Non è così semplice, purtroppo. Quando inizia a sciogliersi, la neve scompare in breve tempo. Questa volta invece il ritorno alla normalità sarà più lento, molto più complicato. Per questo già adesso dobbiamo prestare attenzione ai piccoli segnali di speranza che, no- nostante tutto, si manifestano. Non sarà un disgelo, ma ci sono tanti bucaneve da valorizzare.
A che cosa si riferisce? Al modo in cui ha reagito la scuola, per esempio. Non solo assicurando la didattica in senso stretto, ma ristabilendo uno scenario di appartenenza che è fondamentale all’interno del gruppo dei pari. Il vero modello, però, viene dai medici, dagli infermieri, da tutto il personale sanitario e da quanti, anche al di fuori degli ospedali, si prendono cura di chi è più debole e in maggior difficoltà.
Per chi è impegnato su questo fronte i ritmi sono sempre più pesanti... Il rischio di burnout esiste, non possiamo nascondercelo. Ma questo è un motivo in più per investire sulle pratiche di resilienza. Ora come ora ci sono i bucaneve, appunto, però manca un coordinamento che si faccia carico della persona umana in tutta la sua complessità. L’esperienza ci insegna che, per attuarsi in maniera efficace, la resilienza ha bisogno della collaborazione e interazione fra discipline diverse. Non è un’impresa che lo psicoterapeuta possa compiere in solitudine. Occorre un’alleanza con gli educatori, i religiosi, i medici, direi con tutte le realtà di cura, intese nel senso più ampio.
Come si svolge oggi il suo lavoro? In Lombardia noi psicoterapeuti abbiamo cominciato a fare sedute in videochiamata fin dall’instaurazione delle prime 'zone rosse' nel Lodigiano. Non sempre è facile: a volte c’è un problema di disponibilità di connessione (un coniuge in telelavoro, un figlio collegato per la lezione), altre volte la questione è la riservatezza (in famiglia nessuno ancora sapeva della terapia…), altre ancora subentra il timore che la conversazione venga intercettata e resa pubblica. Questo in generale. Nello specifico, la paura del contagio rischia di sviluppare nuove forme di panico, portando alla luce debolezze nascoste o peggiorando condizioni già note. Una parola buona, a questo punto, è più che mai necessaria.