Dal nostro inviato all'Aquila - Il sudario che la difende dalla polvere lascia filtrare i tratti eleganti di un volto e intuisci che c’è molto di più di quelle lunghe ciocche, del sorriso da mamma, della mano di un bimbo appoggiata sul petto. L’imballaggio è un’accortezza dovuta eppure fa sorridere, se si pensa che questa Madonna del popolo aquilano è uscita illesa da un volo di quindici metri. L’altorilievo del Quattrocento è infatti uno dei tesori recuperati nel centro storico della città delle 99 chiese, la piccola capitale dell’arte cristiana devastata dal terremoto. Il sisma ha trafitto senza riguardo le centinaia di facciate romaniche e di absidi medievali, di cupole rinascimentali e di stucchi barocchi che testimoniano il lungo percorso di fede e di storia compiuto dalla città della Perdonanza. Una città 'santa' e anche una città d’arte, con uno dei centri storici più cospicui dell’Italia centrale, circondato da decine di borghi in grado di dare seguito ai più ambiziosi progetti turistici. Dal 6 aprile tutto è cambiato. «L’Aquila bella non può perire»: di fronte alle rovine che hanno impressionato i Grandi del G8 - ma non al punto di fargli scucire i milioni necessari ai restauri - il canto dell’Anonimo aquilano del XV secolo rischierebbe di ridursi a un timido auspicio se si disperdessero tesori come questa Vergine in pietra, regalataci da una mano ignota come centinaia di icone della madonna del rifugio o della madonna del soccorso, segni della grande devozione mariana degli aquilani. «L’amore per la madonna del popolo aquilano esplode letteralmente nel Settecento, ma la figura della Vergine ha da sempre un ruolo centrale nella nostra religiosità e ce ne rendiamo conto dal numero di chiese intitolate a Maria e dalla miriade di madonne in legno, pietra o su tela che stiamo recuperando tra le rovine del terremoto», ci spiega Giuseppe Tempesta, sollevando il velo su questa Madre in pietra chiara. Siamo nel caveau dell’arte religiosa dell’Aquila, il deposito messo a disposizione dell’Arcidiocesi dalla Conferenza episcopale italiana proprio per non disperdere il patrimonio storico e artistico delle zone colpite dal terremoto del sei aprile scorso. Nelle ore dell’emergenza, quando il mondo ammutoliva di fronte allo squarcio nella cupola delle Anime Sante e ci si chiedeva che fine avesse fatto l’urna con i resti mortali di papa Celestino V, calici e paramenti, statue di santi e preziosi reliquari sono stati trasportati in tutta fretta lontano dal terremoto. Molti a Celano, dove il museo di Paludi è attrezzato per le operazioni di “pronto soccorso” di cui necessitavano parecchie tele rimaste compresse sotto massi e travi. Altri, e soprattutto gli oggetti di oreficeria, nella caserma del nucleo per la tutela del patrimonio culturale dei Carabinieri di Roma. Ora questo tesoro della fede e della storia sta tornando a casa e ogni nuovo “salvataggio” alimenterà il “deposito dei beni mobili”. La struttura, sorvegliata 24 ore su 24, è stata allestita alla periferia del capoluogo, nell’area industriale di Pile, dove sono ubicati anche i nuovi uffici della Curia arcivescovile dell’Aquila. Le opere d’arte potranno essere restaurate senza spostarsi mai da qui, utilizzando speciali apparecchiature collaudate a Camerino per recuperare i beni coinvolti nel terremoto che colpì le Marche nel 1997. Il caveau diocesano contiene già un migliaio di pezzi di gran valore. «Questa madonna – spiega Tempesta – proviene dalla chiesa di San Marco, mentre quel crocifisso ligneo, opera di un artista del Quattrocento, lo abbiamo recuperato in Santa Giusta». Pochi metri più in là, ci attende una croce processionale in argento massiccio, decorata con lamine d’oro: è la croce di Monticchio, opera di Nicola da Guardiagrele, l’orafo del XV secolo il cui capolavoro, la croce di San Massimo, estratta dalle macerie della cattedrale, è stata esposta alla mostra allestita a Coppito per il G8.«Grazie all’iniziativa della Cei, anche la nostra diocesi – spiega ancora Tempesta – aveva classificato queste opere prima del terremoto e quel censimento ora ci torna molto utile per orientarci negli scavi: esclusi gli immobili, l’Aquila ha un patrimonio di diecimila opere d’arte da ritrovare e mettere al sicuro». Molte attendono sotto le macerie, come il San Carlo Borromeo di Teofilo Patini travolto dal muro al quale era appeso, in Duomo. Non sempre, però, quando un muro crolla è un danno. A Onna, le vibrazioni telluriche hanno staccato gli strati superficiali della controfacciata restituendo un affresco del Quattrocento che rappresenta una Madonna con angeli. Ieri, è successo di nuovo: esaminando la torre campanaria sono emersi interessanti resti di antichi dipinti. «Lo stesso nella chiesa di San Silvestro – spiega Giovanna Di Matteo, che segue i beni mobili ecclesiastici per la Soprintendenza ai beni storico artistici dell’Abruzzo – mentre a San Bernardino sono caduti gli stucchi del Settecento ed ecco le paraste del Rinascimento, un’età aurea per questa zona che fino al Seicento sviluppò i commerci della lana, su cui prosperavano le confraternite, che lasciarono una miriade di testimonianze della loro devozione e del loro peso economico». Oggi sono pezzi unici come la Madonna di Saturnino Gatti in terracotta, cinquecentesca, salvata dai crolli di Collemaggio. Che custodisce ancora la teca di Celestino, mentre il corpo di San Bernardino ha preso la via del convento dei frati minori di Tagliacozzo. Saranno conservati nel caveau diocesano il quadro della Madonna che apparve a San Gregorio Magno, oggi esposta a Coppito, e la grande tela di Santa Maria Paganica in L’Aquila, opera del Dondi, al centro di un rocambolesco salvataggio. Non si sa ancora, invece, come estrarre da San Bernardino un quadro di dieci metri per sei, una crocifissione secentesca di Rinaldo Fiammingo: «Per ora la lasciamo dov’è, ma siamo preoccupati, perché la parete si muove», spiega la funzionaria.Alle volte, non è neppure facile convincere gli abruzzesi a permettere il “trasloco”: «È successo a Onna, dove la statua della madonna è rimasta fino alla festa del paese, e a Civita di Bagno: abbiamo dovuto spiegare che noi non trasferiamo i reperti in musei lontani ma che resteranno sul territorio. Questa linea la applichiamo già adesso con i beni non tutelati, come paramenti e opere moderne, che vengono restituiti subito alle parrocchie perché siano utilizzati nelle liturgie delle tendopoli. Lo stesso vale per alcune reliquie cui gli aquilani sono devoti e per le quali, all’occorrenza, cerchiamo una sistemazione che sia in linea con la fede e con la storia». Il corpo di Sant’Eutizio Abate, un eremita del IV secolo considerato, con San Benedetto da Norcia, il padre del monachesimo in Italia e divenuto uno dei patroni dell’Aquila, era stato traslato nel 1461 nella chiesa di Santa Margherita, ma non poteva certo restare nell’ex chiesa dei gesuiti, pesantemente lesionata dal sisma, così l’hanno riportato a Marruci San Lorenzo di Pizzoli, nel monastero che aveva fondato. È tornato dove aveva riposato per novecento anni.