Attualità

L'intervista. Lo psichiatra: non è bullismo, è violenza

Diego Motta venerdì 10 ottobre 2014
La vicenda di Napoli non riguarda solo il destino amaro di quattro persone, ma il futuro dei nostri giovani, delle loro relazioni, delle nostre comunità. «Quel che fa più paura è l’indifferenza emotiva in cui maturano fatti del genere» dice subito il dottor Pierandrea Salvo, psichiatra responsabile del Centro di riferimento per la cura e la riabilitazione dei disturbi alimentari della provincia di Venezia. A Portogruaro ha fondato anni fa una struttura che ha fatto da apripista a diversi progetti che, sul territorio, si prendono cura di adolescenti che soffrono di anoressia e bulimia. «Il problema si manifesta sempre quando l’altro è vissuto come scomodo, come diverso. È quello che mi sembra sia accaduto a Vincenzo, il ragazzo di Napoli» osserva Salvo. Il Garante dell’Infanzia ha detto che siamo andati oltre il bullismo: si tratta di violenza allo stato puro. È così, è evidente. Ci sono molte tipologie di bullismo legate a pregiudizi corporei, che condizionano l’autostima delle vittime. Qui però siamo arrivati al massimo dell’umiliazione. È un dato preoccupante, così come lo sono tantissimi episodi simili che restano nascosti. Sta dicendo che questo fatto è solo la punta dell’iceberg? Ci sono forme di violenza e di prevaricazione diversa nel mondo dei giovanissimi, di cui mai verremo a conoscenza. Tanti ragazzi subiscono in silenzio e poi spariscono dalla vita della comunità, si nascondono in casa, si chiudono in se stessi. In questi casi emergono altri aspetti di disagio. Pensiamo allo stigma che ancora c’è rispetto a chi ha un corpo non canonico, un elemento che spinge spesso all’emarginazione. Ma quel che preoccupa davvero di una storia come questa è un altro aspetto. Quale? L’indifferenza emotiva, anzi, l’anestesia emotiva ed etica di chi pratica azioni del genere. È un atteggiamento che riguarda certamente gli autori di questo gesto folle, ma che non risparmia neppure il cosiddetto gruppo dei pari. C’è un’impotenza comunicativa impressionante, che contagia anche il mondo della scuola dove a volte si sviluppano queste dinamiche. Eppure fare rete tra soggetti diversi per prevenire drammi del genere è possibile, come dimostra la vostra esperienza in Veneto... In questi anni abbiamo spinto molto, come sistema sanitario, sul coinvolgimento dei genitori degli adolescenti, creando diversi gruppi di mutuo aiuto. La disponibilità delle famiglie a ragionare sull’emergenza c’è: i genitori spesso sono determinanti nel chiedere e generare aiuto di fronte a situazioni di disagio dei figli. Terapia e luoghi di ascolto funzionano, sono una risorsa incredibile. Esistono campanelli d’allarme? La tendenza all’isolamento, innanzitutto. E poi il silenzio che scende improvvisamente intorno a certe vicende: quando neanche i compagni di classe più vicini segnalano un malessere o un problema, allora prende forma un clima misto di omertà, compiacenza, indifferenza, quando al contrario servirebbe un contesto in grado di alzare le antenne e di prendersi cura di chi ha bisogno. Cosa può fare il mondo adulto? Il problema vero riguarda quanti di questi ragazzi riescono a trovare il coraggio di denunciare. Sono ancora troppo pochi e questo succede perché si ha la sensazione che l’adulto non ti tuteli abbastanza. Il passaggio decisivo avviene qui e, quando porta a una presa di consapevolezza dei rischi di sopruso e di prevaricazione da parte dell’adolescente e del genitore, consente anche nella maggioranza dei casi un superamento della fase critica. Perché poi fare rete funziona e i nostri territori, quando vogliono, sanno muoversi insieme per trovare le soluzioni che servono.