Colpa dell’individualismo. Sarà una semplificazione, però per Pierpaolo Donati, sociologo all’Università di Bologna e direttore dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia, è questa la causa numero uno del calo drastico dei matrimoni registrato dall’Istat tra il 2009 e il 2010. Ma prima di tutto il curatore dei rapporti biennali del Cisf sulla famiglia si dichiara “spaventato” da numeri che hanno l’aspetto di una Caporetto.
Professor Donati, perché spaventato? Spaventa l’età media degli sposi al primo matrimonio: 33 gli uomini e 30 le donne, sei anni più di quanto accadeva nel 1975...
E dunque? Ciò contrasta con il ciclo biologico della genitorialità: se si alza l’età del matrimonio, si presume che i bambini nascano quando i genitori sono più anziani, con tutte le conseguenze note.
Lo spavento è relativo, visto che l’Istat dice che sempre di più i figli nascono al di fuori del matrimonio...Sì, ma il modello italiano è ancora quello tradizionale. L’Istat sottolinea che nel 2009 il 21 per cento dei bambini è nato da coppie non sposate, ma dimentica che l’80 per cento dei figli nasce dentro il matrimonio, elemento che ci distingue da modelli nordeuropei dove le percentuali sono quasi rovesciate. E poi l’Istat dimentica un’altra cosa...
Cosa? Trovo incompleto che non si citi il fattore demografico: le persone nella fa- scia di età interessate sono sempre di meno, dunque è logico attendersi un calo dei matrimoni anche per questa causa.
Comunque, i giovani sono sempre meno propensi a sposarsi. La precarietà è una della cause. Ma 50 anni fa, anche senza tante certezze, ci si sposava lo stesso. Cos’è cambiato?È vero, anche in situazioni ben più modeste di oggi, le coppie si sposavano lo stesso. Ma c’era una famiglia allargata, una comunità locale dentro la quale si era relativamente protetti. C’era la speranza di vivere, anche modestamente, ma all’interno di un tran tran rassicurante. Ma soprattutto non c’era l’ansia e la paura del futuro. Oggi le aspettative di mobilità sociale e di successo sono così elevate che la precarietà viene vissuta in modo più angosciante.
Sembra che non spaventi tanto la vita a due, visto che sono in aumento le convivenze, quanto il prendere una decisione percepita come definitiva o quasi. Insomma è il “per sempre” che fa paura? Sì, oggi prevale una cultura che spinge a non prendere decisioni non dico stabili, ma nemmeno convinte. Sono generazioni di ragazzi che crescono nell’indecisione, nel disorientamento. D’altra parte, non avendo punti di riferimenti sicuri e stabili intorno a loro, ragionano in termini di contingenza, di possibilità. Tutto è possibile, niente è sicuro, dunque non si possono prendere impegni certi.
Il dibattito degli anni scorsi sulla legalizzazione delle coppie di fatto con i Dico può aver avuto un influsso sulle scelte (o non scelte) matrimoniali delle coppie? Dire che si potrebbero legalizzare le unioni di fatto certamente dà forza all’idea che il matrimonio non è indispensabile. Comunque, dietro i Pacs francesi o i contratti in vigore in altri Stati c’è un individualismo esasperato. Io credo che in definitiva dietro il calo dei matrimonio ci sia l’ideologia secondo la quale l’emancipazione passi attraverso quella che i sociologi chiamano l’individualizzazione dell’individuo. Il singolo, cioè, è sempre meno legato agli altri, a un progetto, a un’appartenenza culturale o sociale. Ma una società di legami deboli o di rifiuto dei legami è una società più fragile, che produce disastri individuali e sociali.
E poi c’è la scarsità di politiche familiari nel nostro Paese. Nemmeno questo aiuta la “reputazione” del matrimonio... Non attuando politiche per la famiglia, il Paese dà un messaggio sconfortante e negativo. I giovani non vedono premiati, bensì penalizzati, il matrimonio e la famiglia. Chi si sposa paga più tasse di chi non si sposa, chi ha figli paga più di chi non ne ha. Bisogna che le politiche sociali si indirizzino a premiare, senza discriminare nessuno, chi si assume responsabilità, secondo regole di equità e di giustizia.