Lilt. Tempi di attesa lunghi e costi alti: ecco come si curano gli immigrati
Confronto medico-paziente nel progetto Salute senza frontiere
Se di immigrati si parla quasi ogni giorno, raramente lo si fa mettendo al centro del dibattito la loro salute. Un dato su tutti: il 17% non ha un medico di famiglia. E in caso di problematiche oncologiche, la maggior parte di loro va in pronto soccorso, una struttura non idonea per gestire percorsi di diagnosi di questo tipo, con il rischio peraltro di sovraccaricare ulteriormente il sistema sanitario.
Anche per questo è così importante il lavoro fatto dalla Lega italiana per la lotta ai tumori (Lilt), che ieri ha presentato i risultati del progetto “Salute senza Frontiere”. Avviato nel 2017 da Lilt Milano Monza Brianza, è un percorso che promuove la prevenzione e la salute tra le comunità straniere, soprattutto tra quelle che riscontrano più difficoltà nell’accesso alle cure sanitarie. È un progetto che si struttura in incontri formativi e laboratori svolti nei luoghi frequentati dalle comunità: chiese, centri islamici, associazioni culturali, associazioni di migranti, scuole di lingua italiana per stranieri, templi buddisti e chiese ortodosse.
Per valutare l’impatto dell’iniziativa, sono stati coinvolti 470 immigrati provenienti da Asia (47%), Europa (23%), Africa (17%) e America Latina (13%), suddivisi in un gruppo sperimentale di partecipanti al progetto e in uno di controllo di persone non coinvolte.
I dati relativi all’intero campione dicono che le maggiori difficoltà riscontrate nell’accesso ai servizi sanitari riguardano i lunghi tempi di attesa e i costi elevati delle visite. A giocare un ruolo importante è anche la mancanza di tempo, elemento su cui si è soffermato il professor Maurizio Ambrosini, sociologo delle migrazioni all'Università di Milano, che insieme a Deborah Erminio, sociologa del Centro Studi Medì di Genova, ha realizzato la valutazione del progetto.
«Quando i migranti arrivano in Italia, solitamente sono in buona salute: difficilmente le famiglie investono risorse per far partire persone malate. Ma poi a causa del viaggio, o più spesso per le condizioni di lavoro, quelle abitative e l’alimentazione, questo patrimonio di salute si deteriora», ha spiegato Ambrosini.
Tra gli elementi che pesano su questo deterioramento c’è anche la solitudine e la lontananza dalla famiglia. Elemento che non sarà certo allievato dalla recente stretta sui ricongiungimenti familiari, per i quali bisognerà attendere non più uno ma due anni. «L’urgenza di aiutare le famiglie li porta a lavorare molto, ad accettare impieghi usuranti e a trascurare i sintomi», ha spiegato Ambrosini.
Per quanto riguarda le differenze emerse tra i due gruppi d’indagine, i risultati evidenziano la validità del progetto. Il gruppo sperimentale ha una maggiore consapevolezza su dove reperire informazioni accurate sui tumori, ma anche sugli esami da effettuare e su come ridurre il rischio di ammalarsi, conoscenze che non sono invece diffuse allo stesso modo nel gruppo di controllo. Ad esempio, il gruppo sperimentale identifica come maggiormente dannoso per la salute il consumo di carne rossa (per il 36,4%) rispetto al gruppo di controllo (22%). O ancora, le persone che hanno partecipato al progetto vanno più frequentemente dal medico non solo quando sono malate, ma anche per controlli generali, e sono più consapevoli dei benefici di una diagnosi precoce (7 persone su dieci la pensano così contro 6 su dieci del gruppo di controllo).
“Salute senza Frontiere” si è dimostrato particolarmente efficace per chi vive in condizioni di maggior vulnerabilità, come rifugiati, richiedenti asilo, lavoratori precari e disoccupati. «Tra le categorie che ne hanno beneficiato di più ci sono inoltre i giovani sotto i 30 anni, le persone con titolo di studio più basso e gli uomini», ha spiegato la sociologa Deborah Erminio. Un ulteriore elemento distintivo è il Paese di origine: quest’anno Lilt si è concentrata soprattutto su Filippine, Senegal, Sri Lanka e Ucraina, con un impatto particolarmente significativo negli ultimi tre casi.
Tra le difficoltà emerse nell’accesso ai servizi sanitari, più del 10% del campione ha dichiarato difficoltà linguistiche nella comprensione dei referti medici. Anche per questo è fondamentale il ruolo svolto dagli “ambasciatori della salute”. Avere una persona della comunità che, con una spinta dal basso verso l’alto, permetta di entrare nelle comunità con il rispetto linguistico e culturale. Da quest’anno, agli ambasciatori Lilt si è aggiunta Manawi Nacayanandi, in rappresentanza della comunità srilankese: «Il nostro ruolo di ambasciatori è vitale perché fungiamo da ponte tra Lilt e la nostra comunità, che spesso si sente confusa e disorientata nel capire come funziona il sistema sanitario italiano. Cerchiamo di promuovere l’inclusività, di far sentire le persone ascoltate e guidarli nella prevenzione». Il successo ottenuto nel corso degli anni da questa iniziativa ha portato ad estendere il progetto ad altre 12 sedi Lilt a livello nazionale. Un percorso che, mentre ci ricorda quanto avere un diritto sulla carta sia diverso dall’esercitarlo davvero, aiuta a colmare questa distanza.