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Mercanti di uomini. Libia, una vita vale 12.500 dollari. Storie di tortura e sofferenza

Paolo Lambruschi sabato 28 dicembre 2019

Il pianto di una donna in un centro di detenzione a Tripoli, Libia (Ansa)

«Aiutateci. Siamo in pericolo, ci prendono a calci ogni volta. Se potete aiutateci per favore».

La vita di una persona vale 12.500 dollari nel lager libico di Bani Walid, 11.220 euro circa. È il prezzo fissato dai miliziani che appartengono alla tribù dei Warfalla e che controllano la città nel distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud est di Tripoli, uno dei principali snodi del traffico di migranti in arrivo dal sud della Libia e diretti verso la costa. L’economia dell’area si regge da anni sul traffico di petrolio e di esseri umani.

I banditi hanno "acquistato" dal trafficante eritreo Abuselam Ferensawi, detto il francese, uno dei maggiori mercante di carne umana in Libia – sparito probabilmente in Qatar per godersi i proventi del suo lavoro criminale pluriennale – un gruppo di 66 eritrei, tra cui 8 donne. Allo schiavista eritreo sono stati pagati 14mila dollari ciascuno. I sequestrati si trovavano in Libia da almeno un anno, nel corso del quale sono stati più volte venduti e schiavizzati.

Ma nessuno del gruppo è stato in grado finora di riscattare la propria vita e così, per "contenere" le perdite, i warfalla hanno abbassato il prezzo e lasciato ai prigionieri maggiore libertà di comunicare per chiedere aiuto con i social. Siamo riusciti a entrare in contatto con i rapiti attraverso il numero di un ragazzo di 18 anni, ucciso a colpi di mitra il 17 novembre mentre cercava di fuggire. Il suo nome era Solomon Teklay.

Funziona così il mercato della carne umana sulla sponda libica del Mediterraneo, nel silenzio complice dell’Europa. Come funzionava 10 anni fa nel Sinai, sempre con i subsahariani. Stesso copione, si fissa un prezzo e per sollecitare ai parenti il pagamento del riscatto si ricorre alle torture, ampiamente sperimentate, e agli stupri. I prigionieri vengono scarsamente nutriti per minimizzare i pericoli di fuga. Torture peraltro già documentate da Avvenire con diverse fotografie lo scorso gennaio.

La vicenda dei 66 eritrei è stata resa nota in Italia tempo fa dagli attivisti di Eritrea democratica, un gruppo di rifugiati nel nostro Paese che tiene i contatti con i connazionali in Libia e con i loro parenti. I riscatti devono essere pagati via money transfer ad emissari dei banditi in Egitto e Sudan.

«Ci torturano 24ore al giorno – prosegue il messaggio su Whatsapp scritto in un inglese stentato – e altre tre persone in un mese sono morte per le torture».

E poiché tutti i morti hanno diritto a un nome, siamo riusciti a ottenerli dai loro compagni di prigionia. Si tratta di tre eritrei: Medane Debesai, ucciso il 20 novembre, di Samuel Gebrekristos, morto il 26 novembre scorso, e di Mussie Hyawzgi, di cui non sappiamo la data di morte.

Secondo i prigionieri, il più spietato tra gli aguzzini si fa chiamare Hamza. «È pericoloso, è armato di fucile e coltello, ci minaccia e ci ferisce. Ci sono otto ragazze che vengono violentate sistematicamente davanti a noi mentre altri banditi ci minacciano con il coltello». Tra queste sventurate c’è Elena, rapita a Tripoli i cui genitori sono morti. Sta male e la sua vita ora è in pericolo.

Il lager di Bani Walid è noto alla giustizia italiana. Nell’aprile 2018 la Corte di Assise di Milano condannò all’ergastolo Osman Matammud, somalo 25enne accusato di aver torturato nella galera per oltre un anno 17 persone che lo avevano riconosciuto e fatto arrestare nel settembre 2017 nel capoluogo lombardo, dove era ospite dello stesso centro di accoglienza.

Il carnefice usava le stesse modalità raccontate dai prigionieri. Il boia Osman, si legge nella sentenza, «usava anche l’acqua per tormentare i prigionieri che venivano appesi a testa in giù con mani e piedi legati. A chi urlava veniva messa la sabbia in bocca». C’era poi il sistema della plastica sciolta. «Consisteva nel bruciare borse di plastica con un accendino e poi lasciare colare la plastica incandescente sulla pelle del malcapitato».

Ad Osman sono stati anche attribuiti 13 omicidi di ostaggi i cui pagamenti tardavano troppo.

Ma non è cambiato nulla: nessuno interviene per fermare il mercato degli schiavi del Mediterraneo, dove la vita di un subsahariano vale quanto un’auto usata.

Solo papa Francesco lo scorso 19 dicembre ha rotto il muro dell’indifferenza ricordando che davanti al grido disperato di tanti fratelli e sorelle «che preferiscono affrontare un mare in tempesta piuttosto che morire lentamente nei campi di detenzione libici, luoghi di tortura e schiavitù ignobile, la nostra ignavia è peccato!».