LA STRATEGIA DEL PREMIER. Letta: i numeri cresceranno, ora riforme
Le due giornate più lunghe della sua vita politica si sono appena concluse. Enrico Letta raduna nella sua stanza di Palazzo Chigi lo staff e i parlamentari più vicini e, al netto dell’«umana amarezza» per come si è conclusa la parabola di Silvio Berlusconi nelle istituzioni, non riesce a nascondere i tanti motivi d’ottimismo: «Queste sono le vere larghe intese, questo è il governo dei migliori che avevo in mente fin dal primo giorno. Il governo dei 40enni, di chi non porta il peso di pregiudizi e ideologie. L’avevamo già disegnato così, con Napolitano, quello che è accaduto in Parlamento conferma la bontà della nostra intuizione». In sottofondo c’è la conferenza stampa di Alfano, Letta butta un occhio e fa un cenno affermativo con il capo: «Angelino ha ragione. Ora basta indugi sulle riforme, su tutte le riforme, anche sulla giustizia dobbiamo mostrare coraggio. E basta compromessi sulle politiche economiche: a fine 2014 voglio una crescita all’1 per cento che sconfessi le stime pessimistiche di Bruxelles. Ora siamo liberi, liberi di seguire il buon senso e non proposte demagogiche».C’è una sorta di controllata euforia nel quartier generale del premier. Francesco Russo, l’ufficiale di collegamento tra Palazzo Chigi e Senato, l’uomo che ha gestito l’intera partita della decadenza e del voto palese, non nasconde l’entusiasmo: «È un taglio netto con il passato, c’è una generazione pronta a prendere tra le mani il Paese». Ma allo stesso tempo c’è la consapevolezza che le fibrillazioni continueranno ancora nei prossimi giorni. Forza Italia non ci sta a nascere, politicamente, nel silenzio di un’Aula che ha fatto decadere il suo leader come se fosse un fatto fisiologico, inevitabile. «Vogliamo essere ascoltati al Colle», dicono in serata i forzisti al termine di una riunione lunga e litigiosa, in cui l’assenza di Berlusconi si sente eccome. Dopo aver paventato l’ipotesi di spericolate marce sul Quirinale, l’intenzione, più prudentemente, diventa quella di salire al Colle per «parlamentarizzare la crisi», per riportare Letta in Aula a chiedere una nuova fiducia. Napolitano dirà «no», già l’ha messo nero su bianco martedì. Ma ai forzisti non interessa. Loro vogliono un momento pubblico dal quale si capisca che il progetto originario del capo dello Stato, quello per cui ha accettato il secondo mandato, è fallito, tramontato. «Si dovrebbe dimettere», dicono i più facinorosi affacciando addirittura l’ipotesi dell’impeachment. Una vera spina per il Quirinale, che si troverebbe sotto l’assedio incrociato del Cavaliere e di Beppe Grillo.
Ma Palazzo Chigi e Quirinale non tremano. La conferenza stampa che Letta convoca per le 11.30 di ieri è sintomatica. Una mossa a sorpresa, piazzata cronologicamente a metà tra il voto di fiducia incassato nella notte dal Senato sulla legge di stabilità e la conclusione del nodo-decadenza. «Hanno votato per noi 171 senatori. Li ringrazio, sono più del previsto», dice il premier. 171, «quanti votarono la fiducia a Berlusconi nel 2008». Come a dire: altro che numeri risicati, altro che «novello Prodi»: non c’è alcun bisogno di fare un nuovo vaglio alle larghe intese. «Ora siamo più forti e coesi, userò questa forza per accelerare sulle riforme, il Paese ne ha bisogno», assicura Letta. E ancora: «Per me la formula del governo non cambia, siamo sempre forze diverse messe insieme per necessità. Nei prossimi giorni incontrerò i leader che mi sostengono per mettere a fuoco come arrivare sino al 2014». Una road map che sarà definito giocoforza dopo l’8 dicembre, dopo l’incoronazione di Renzi a segretario del Pd. «Collaboreremo», si limita a dire il premier.
Una collaborazione, quella con il sindaco di Firenze, che starà stretta al rottamatore, ma poco importa. «I numeri cresceranno ancora, tra un po’ ci sarà uno smottamento. Già stanotte (ieri notte, ndr) in cinque dei loro non si sono presentati, e senza Silvio abbiamo tutto da guadagnare: i dissidenti M5S ora non hanno più pregiudizi, altri di Forza Italia non ci stanno al gioco al massacro, e in più la base del Pd ha visto che non ci svendiamo», si confidano premier e vicepremier nei mille colloqui di giornata. Cosa c’entra questo con Renzi? «Matteo – spiega Letta – non ha assi nella manica: non può dire che siamo appesi ai peones, non controlla i gruppi Pd, ha Berlusconi e Grillo altissimi nei sondaggi, ha il Porcellum che lo obbligherebbe di nuovo alle larghe intese. Lo ascolterò, sarò felice se farà sentire di più la voce del Pd. Ma niente accordi segreti. Nel 2015 ci sarà la verifica e si valuterà ogni cosa: se andare al voto, se proseguire. Io stesso – guarda avanti il premier – valuterò solo allora se sfidarlo alle primarie...».