Mancano pochi minuti alle 14. Enrico Letta è al lavoro da solo nel suo studio a Palazzo Chigi. Sembra una giornata serena. All’improvviso, però, come un fulmine a ciel sereno, sul suo computer si palesa l’agenzia di stampa che annuncia «il grande scoglio», come chiamano a Palazzo Chigi la sentenza Mediaset di terzo grado. Il premier convoca subito il suo staff: «Calma e sangue freddo, non è cambiato nulla, lo scenario è sempre lo stesso», ordina ai suoi. Poi però, accompagnando le parole con un volto imperturbabile, ammette: «Non mi aspettavo questa accelerazione. Ora è tutto più complicato, nei prossimi venti giorni la salita sarà più ripida». Il 30 luglio, di colpo, diventa un potenziale giorno del giudizio. La sentenza. L’Imu. L’Iva. La conversione dei decreti. Le riforme. Il finanziamento pubblico ai partiti. Tutto in quel giorno, o quasi.Ma non sarà quella l’ultima fermata del governo, scommette Letta: «Per Silvio il nostro esecutivo è l’unica garanzia. Fuori da questa rotta, per lui potrebbe esserci un epilogo drammatico», dice ai parlamentari che lo cercano per avere lumi. Alla Camera e al Senato i lettiani disegnano scenari da guerra civile che, secondo loro, dovrebbero far desistere Berlusconi da ogni tentazione: la possibilità che il Cav venga arrestato, la sua cacciata da Palazzo Madama, il centrodestra in fiamme...Il premier intanto sente più volte Angelino Alfano. I due si scambiano, per quanto è possibile, rassicurazioni. Letta azzarda anche una soluzione in tempi rapidi sull’Imu ampiamente soddisfacente per il Pdl, in modo da chiudere il più grosso dei focolai economici. E in effetti le ore scorrono senza che da Palazzo Grazioli arrivino scossoni o "bombe". Ai falchi del Pdl viene lasciata ampia libertà di "sfogo", ma il Cavaliere resta sotto coperta e le colombe riescono a placare le sue ire. Per il premier è un buon segnale. Perciò, in serata, si presenta a Ballarò senza far trasparire dubbi sul futuro. Al punto da indispettirsi con Floris: «Si rende conto di quante volte ha nominato Berlusconi? Non c’è solo lui, c’è anche l’Italia...». Poi, riprendendo il tradizionale self control: «L’ho già detto alla Bbc stamattina, non ci saranno conseguenze sul governo. Un premier – prosegue – non commenta le sentenze, figuriamoci le date di sentenze». Infine l’ultimo bullone contro i retropensieri di pezzi del Pdl e del Pd, a ricordare il patto stretto davanti a Napolitano: «Ci siamo dati un orizzonte di 18 mesi». C’è il tempo pure per qualche battuta più serena: «Non credo che farò vacanze... Crozza non mi imita? Peccato, porta bene...».Poco prima di entrare negli studi di Rai3, su Palazzo Chigi si era abbattuta un’altra grana, l’ennesimo, e stavolta davvero indigesto, declassamento di Standard and Poor’s. Ma si tratta, per Letta, del classico male da trasformare in bene: «È la prova che il Paese è ancora sotto osservazione», commenta. Fra le righe, è un appello alla responsabilità del Cav, che correndo alle urne, dovrebbe anche assumersi la responsabilità di una probabile impennata degli spread. Sono queste argomentazioni «razionali» a condurre Letta verso le uniche conclusioni che ritiene plausibili. Le stesse che riferisce alla Bbc4 che l’ha intervistato ieri mattina in vista del vertice con Cameron della settimana prossima: «Abbiamo un largo consenso in Parlamento e un consenso molto buono anche nel Paese».Eppure, di fronte a fatti che si accatastano senza ordine, l’aria di voto non può essere spazzata via solo con la buona volontà. Non è un caso se, prima delle fatidiche ore 14, Letta avesse trovato l’occasione di ribadire le sue intenzioni sulla legge elettorale: «Il Porcellum è un monstrum, una vergogna da superare presto», dice il premier in un’intervista alla rivista dell’Arel, il think tank che presiedeva prima di dimettersi «per evitare conflitti d’interesse». Insomma, meglio essere sempre preparati all’imprevisto, all’incidente fatale. Una questione di prudenza e di buonsenso. Al termine di una giornata complessa, forse nella testa del premier resta la frase di Andreatta che lui stesso ha citato durante un convegno con il banchiere Bazoli: «L’Italia non è la Repubblica delle banane, la fermezza non è la peggiore delle strade». Proseguire sui fatti per sminare il terreno. Arrivare al 30 luglio con una dote di provvedimenti che renda inoffensiva qualsiasi sentenza.