Attualità

INTERVISTA. «L’edilizia non basta, puntare su educazione e lavoro»

Giovanna Sciacchitano giovedì 18 giugno 2009
E' emergenza dichiarata per il pianeta carceri. E se ne esce solo con un disegno organi­co, in cui il nodo dell’edilizia car­ceraria venga affrontato nel qua­dro di un disegno complessivo che rilanci la funzione educativa della detenzione. Ne è convinto Nicola Boscoletto, presidente del consor­zio di cooperative Rebus di Pado­va, che da vent’anni opera in que­sto mondo. «Il piano carceri sen­za altri interventi risulterebbe un rimedio inefficace. Da venticinque anni lo Stato non investe in ma­niera adeguata né sotto il profilo e­conomico, né dal punto di vista del recupero della persona. L’eredità con cui dobbiamo fare i conti og­gi è pesante e di questo devono ri­sponderne tutti, senza distinzioni partitiche». Quali le soluzioni? «Si deve partire dal motto della po­lizia penitenziaria: “ Vigilando re­dimere”. Questo per dire che au­mentare la capienza degli istituti di pena è necessario, ma occorre a­vere ben presente che si deve fare di tutto per reinserire nella società chi ha sbagliato. A questo si ag­giunga che su 63.500 detenuti at­tuali, ben 31.500 risultano in atte­sa di giudizio. Si tratta del dato più elevato a livello europeo. È urgen­te una riforma della giustizia che renda rapidi i processi. Senza con­tare che nel 2008 sono entrate e u­scite dalle carceri 93mila persone. La maggior parte vi è stata per po­chi giorni. In questo caso ci tro­viamo di fronte a un utilizzo im­proprio della detenzione. Meglio sarebbe ricorrere agli arresti do­miciliari o all’obbligo di firma». Perché oggi il carcere fatica a svol­gere la sua missione? «Perché il personale, dagli educa­tori agli agenti penitenziari, è sot­to organico, ma soprattutto opera in un ambito in cui non viene ri­conosciuto adeguatamente il suo valore e la sua funzione. In questa situazione molto spesso si finisce per incrementare i contatti a livel­lo criminale. Ecco perché è indi­spensabile investire nelle risorse umane, anche con un riconosci­mento economico per chi lo me­rita». Quali gli altri interventi? «Un’azione pensata a livello euro­peo per i 24mila extracomunitari detenuti, spesso perché trovati pri­vi di permesso di soggiorno, prov­vedimenti mirati per le 20mila per­sone nelle carceri con problemi di tossicodipendenza, incremento delle misure alternative al carcere e del lavoro all’interno dei peni­tenziari. Solo l’uno per cento dei detenuti che in carcere ha impa­rato un’attività professionale tor­na a commettere un reato, in caso contrario la recidiva è del 90 per cento. Certo, occorre tempo». Quindi cosa suggerisce? «Un’iniziativa intelligente e mira­ta di clemenza, senza la quale di­venta difficile affrontare l’emer­genza ordinaria. Serve per ridare fiato al sistema che dev’essere ri­pensato nel suo insieme. L’indul­to dell’agosto del 2006 ha fornito una boccata d’ossigeno che è du­rata due anni, ma non è stato se­guito dalle riforme. L’ultima am­nistia, invece, risaliva al 1990. La prima è stata concessa nel ’46. Da allora fino al ’90 gli atti di clemen­za si sono succeduti con una me­dia di uno ogni due anni e mezzo. Poi c’è stata una lunga pausa. Cre­do che anche oggi la gente accet­terebbe provvedimenti di questo tipo se fossero accompagnati dal­le riforme necessarie».