E' emergenza dichiarata per il pianeta carceri. E se ne esce solo con un disegno organico, in cui il nodo dell’edilizia carceraria venga affrontato nel quadro di un disegno complessivo che rilanci la funzione educativa della detenzione. Ne è convinto Nicola Boscoletto, presidente del consorzio di cooperative Rebus di Padova, che da vent’anni opera in questo mondo. «Il piano carceri senza altri interventi risulterebbe un rimedio inefficace. Da venticinque anni lo Stato non investe in maniera adeguata né sotto il profilo economico, né dal punto di vista del recupero della persona. L’eredità con cui dobbiamo fare i conti oggi è pesante e di questo devono risponderne tutti, senza distinzioni partitiche».
Quali le soluzioni? «Si deve partire dal motto della polizia penitenziaria: “ Vigilando redimere”. Questo per dire che aumentare la capienza degli istituti di pena è necessario, ma occorre avere ben presente che si deve fare di tutto per reinserire nella società chi ha sbagliato. A questo si aggiunga che su 63.500 detenuti attuali, ben 31.500 risultano in attesa di giudizio. Si tratta del dato più elevato a livello europeo. È urgente una riforma della giustizia che renda rapidi i processi. Senza contare che nel 2008 sono entrate e uscite dalle carceri 93mila persone. La maggior parte vi è stata per pochi giorni. In questo caso ci troviamo di fronte a un utilizzo improprio della detenzione. Meglio sarebbe ricorrere agli arresti domiciliari o all’obbligo di firma».
Perché oggi il carcere fatica a svolgere la sua missione? «Perché il personale, dagli educatori agli agenti penitenziari, è sotto organico, ma soprattutto opera in un ambito in cui non viene riconosciuto adeguatamente il suo valore e la sua funzione. In questa situazione molto spesso si finisce per incrementare i contatti a livello criminale. Ecco perché è indispensabile investire nelle risorse umane, anche con un riconoscimento economico per chi lo merita».
Quali gli altri interventi? «Un’azione pensata a livello europeo per i 24mila extracomunitari detenuti, spesso perché trovati privi di permesso di soggiorno, provvedimenti mirati per le 20mila persone nelle carceri con problemi di tossicodipendenza, incremento delle misure alternative al carcere e del lavoro all’interno dei penitenziari. Solo l’uno per cento dei detenuti che in carcere ha imparato un’attività professionale torna a commettere un reato, in caso contrario la recidiva è del 90 per cento. Certo, occorre tempo».
Quindi cosa suggerisce? «Un’iniziativa intelligente e mirata di clemenza, senza la quale diventa difficile affrontare l’emergenza ordinaria. Serve per ridare fiato al sistema che dev’essere ripensato nel suo insieme. L’indulto dell’agosto del 2006 ha fornito una boccata d’ossigeno che è durata due anni, ma non è stato seguito dalle riforme. L’ultima amnistia, invece, risaliva al 1990. La prima è stata concessa nel ’46. Da allora fino al ’90 gli atti di clemenza si sono succeduti con una media di uno ogni due anni e mezzo. Poi c’è stata una lunga pausa. Credo che anche oggi la gente accetterebbe provvedimenti di questo tipo se fossero accompagnati dalle riforme necessarie».