L'immunologo. «Ecco cosa sappiamo su trombosi e AstraZeneca»
Roberto Giacomelli, professore di Immunologia clinica e reumatologia e responsabile dell'ambulatorio per il trattamento del Covid-19 con gli anticorpi monoclonali all'Università Campus Biomedico di Roma
Prima il caso Astrazeneca, ora la lente dell’Ema anche sul vaccino Johnson & Johnson… Cosa sta succedendo?
Ogni volta che sperimentiamo un farmaco – dice Roberto Giacomelli, professore di Immunologia clinica e reumatologia e responsabile dell’ambulatorio per il trattamento del Covid-19 con gli anticorpi monoclonali all’Università Campus Biomedico di Roma –, passiamo attraverso le famose quattro fasi propedeutiche all’autorizzazione. Nelle prime tre vengono arruolate 20-40mila persone per i test di efficacia e sicurezza, ed è un numero largamente sufficiente a evidenziare l’eventuale comparsa di eventi avversi frequenti, che renderebbero inutilizzabile l’eventuale molecola. Da sempre in medicina sappiamo che gli eventi rari, come le trombosi che si sono realizzate in percentuali infinitesimali dei pazienti vaccinati con il prodotto AstraZeneca, rappresentano un segnale di fondo che può sfuggire su un campione di decine di migliaia di volontari, rispetto ai milioni di soggetti che verranno poi vaccinati. Per questo esiste la farmacovigilanza.
Ammetterà che è un brusco risveglio: quando sono stati prodotti i primi vaccini, si è pensato di essere ormai fuori dall’incubo del coronavirus. Siamo stati tutti troppo ottimisti?
I dati dicono che vogliamo uscirne a tutti i costi e che riteniamo possibile farlo. Facciamo più morti della prima ondata, ma le città ci sembrano normali. Le esigenze sanitarie – meno malati in corsia – e quelle politiche – chiudere l’emergenza – convergono con il sentimento popolare, che è quello di voltar pagina. Non mi sorprende un eccesso di ottimismo.
Però sapevamo che il coronavirus aggredisce il sistema cardiovascolare creando dei trombi…
Durante la tempesta citochinica che succede all’infezione da Sars-CoV-2, si attivano diverse vie infiammatorie. Alcune portano alla distruzione del polmone che è la via d’ingresso del virus, ma altre sono in grado di attivare la coagulazione ed è per questo che facciamo eparina terapia anticoagulante a tutti i malati di Covid-19. Ciò che non sappiamo è se esista un nesso tra questa ipercoagulabilità durante la malattia e l’evento raro denunciato in alcuni pazienti vaccinati con AstraZeneca.
Esattamente, cosa hanno subito?
Si è ravvisata una produzione di auto-anticorpi contro il fattore 4 (F4) delle piastrine. Questi auto- anticorpi provocano un effetto simile a quello indotto dall’infiammazione: le piastrine si aggregano e formano trombi. Non a caso si usano le terapie anticoagulanti.
Questo non deve far pensare a una relazione con la somministrazione del vaccino?
No, allo stato attuale non è possibile dimostrare un nesso di causalità, ma solo un’associazione. L’evento agli effetti medici mostra la stessa dinamica, ma non si può correlare alla ipercoagulabilità causata dall’infiammazione da coronavirus, perché la trombosi post vaccino si manifesta in una percentuale infinitesimale dei casi e l’ipercoagulazione da infiammazione avviene nel 10% dei malati. Una tale discrepanza statistica rende i due fenomeni incomparabili, in assenza di altri dati che permettano di farlo.
Sul piano immunologico, il problema dove nasce?
A oggi non riusciamo a capire se la formazione di trombi parta della molecola Spike, che induce la formazione degli autoanticorpi, oppure dal vaccino. Sappiamo che si formano degli auto-anticorpi diretti contro il fattore 4 delle piastrine: una volta che viene attivato F4, le piastrine si aggregano e si distruggono ed aggregandosi formano i trombi. Questo tipo di attivazione si osserva molto raramente, anche in alcuni pazienti trattati con eparina. L’eparina si lega a F4 e genera poi la cascata trombotica e la distruzione delle piastrine. In alcuni soggetti trattati con AstraZeneca osserviamo che, anche in assenza di eparina, si sviluppa questo auto-anticorpo anti-F4 e si sviluppano trombi in soggetti inizialmente sani, ma non sappiamo ancora da cosa dipenda. Siamo all’osservazione del fenomeno – e ciò basta ovviamente ad allertarci – ma non alla comprensione delle cause.
È da complottisti credere che l’industria farmaceutica abbia sfruttato l’esigenza di fare in fretta per tagliare i costi?
Sì, perché significa prescindere dalla realtà. L’industria farmaceutica non è un ente di beneficenza, ha anche lo scopo di fare profitti, ma è soggetta a leggi e controlli rigorosi. Dirò di più: i vaccini hanno dei costi diversi, ma non significa che quelli meno costosi siano prodotti con superficialità. Inoltre, i problemi di comunicazione non sempre dipendono dall’attività di marketing dell’industria: talvolta si ritorcono sulle aziende, come dimostra il caso AstraZeneca. Quella società ha presentato all’inizio dati ancor più prudenti di quanto sappiamo oggi; ha dichiarato nel primo dossier una capacità di protezione del 70% mentre si è dimostrata dell’80%. Questa variazione statistica avrebbe dovuto rafforzare l’immagine di quel vaccino, mentre al contrario ha generato un’incertezza che poi si è amplificata.
Cosa pensa di una moratoria sui brevetti?
L’ipotesi sta in piedi, con tanti se. Una moratoria per un periodo transitorio sulle licenze, in maniera da permettere una maggiore produzione, è plausibile in questa situazione, tuttavia è solo grazie al fatto che le industrie farmaceutiche fanno importanti profitti e che quindi hanno la possibilità di investire parte di questi profitti in ricerca e sviluppo, che abbiamo potuto avere rapidamente dei vaccini efficaci e sicuri, in quanto, diversamente, nessuno avrebbe studiato questa materia per anni, quando apparentemente non serviva investire su virus e vaccini. Pensiamoci bene a limitare il sistema industriale: semmai, negoziamo una limitazione transitoria per questa fase di intensa vaccinazione di massa.