Attualità

Maturita. Le tracce della maturità svolte dagli esperti di Avvenire

mercoledì 20 giugno 2018

TIPOLOGIA A - ANALISI DEL TESTO
Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini

Dopo il Giorgio Caproni dello scorso anno, anche questa volta per l'analisi del testo della prima prova di maturità è "uscito" (come si dice in gergo) un autore del secondo '900, Giorgio Bassani. Ai candidati è stato proposto un brano della sua opera più celebre, il romanzo Il giardio dei Finzi-Contini, premiato nel 1962 con il Viareggio e da allora entrato stabilmente nella storia della letteratura italiana (anche se forse da qualche tempo uscito dal "canone scolastico" delle letture obbligate o consigliate).È un passo molto bello, in cui viene reso lo smarrimento (e la soffocata indignazione) del protagonista, studente universitario di Lettere, quando di punto in bianco una mattina viene cacciato in malo modo dalla sala di lettura della biblioteca della sua città, Ferrara. Sono entrate in vigore le leggi razziali e lui, di famiglia ebraica, ne è una delle prime vittime.Quello delle leggi razziali, del resto, era un argomento tra i più gettonati dai pronostici della viglia, stante la ricorrenza degli 80 anni dalla promulgazione di quel provvedimento che rappresenta una delle pagine più oscure della storia italiana dell'ultimo secolo. Forse però gli studenti se lo aspettavano maggiormente nel tema storico, invece il Miur ha pensato bene di inserirlo nella prima tipologia. Mostrando così come la mancata trattazione della letteratura contemporanea (dal secondo '900 ai giorni nostri), pure prevista dalle indicazioni e dalle linee guida ma di fatto ancora assai poco sviluppata, sia un'occasione persa per un approfondimento anche di tematiche storiche e civili di fondamentale importanza per quelle competenze di cittadinanza di cui è opportuno che i ragazzi si dotino. Ma un conto è studiare le leggi razziali sul libro di storia, un altro è vederne rappresentato l'effetto concreto sulla vita delle persone, nel romanzo di Bassani personaggi di finzione, certo, ma forti di un'evidenza drammatica che nessun saggio storiografico può possedere: è questa la potenza della letteratura. Il testo mette a fuoco, infatti, tutta l'aberrazione di una discrimanzione folle e feroce, assurda nella sua quotidiana "banalità" (quella "banalità del male" di cui parlerà Hannah Arendt), che assume qui il volto del becero inserviente il quale intima al protagonista di lasciare immediatamente la biblioteca.

Roberto Carnero


AMBITO ARTISTICO - LETTERARIO
ARGOMENTO: I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura.

Per l’umanità del nostro secolo, votata alla costante necessità del comunicare – non conta che cosa e a chi, l’importante è essere “collegati” e far parte di una “comunità” nel villaggio globale che è diventato il mondo – la parola solitudine ha di primo acchito un’accezione per lo più negativa: si è soli (si pensa subito) perché non accettati, perché diversi, perché non inclusi. Ci viene però in soccorso la parola dei poeti e dei filosofi, per riscoprire la solitudine come valore positivo, addirittura costitutivo della nostra stessa identità, la condizione più vicina al sublime: “beata solitudo, sola beatitudo”, scrivevano gli antichi, per sottolineare che soltanto separandosi dal mondo e dagli altri è possibile trovare la tranquillità dell’animo.E’ questo il concetto espresso dal Petrarca nel brano tratto da “La vita solitaria”, vista come un rifugio in cui isolarsi per fuggire le tentazioni e ogni distrazione che ci fa perdere l’essenza vera dell’esistere. In questo senso, la solitudine è vista come una turris eburnea dall’alto della quale guardare, ma con distacco, ciò che è terreno per avvicinarsi a ciò che è celeste.
Ma, come dice il titolo della traccia, la solitudine è un organismo dai molti volti, che in Pirandello gioca a nascondino con noi e ci ricorda, paradossalmente, che lei c’è se accanto a noi c’è qualcun altro: conditio sine qua non per essere tragicamente soli al mondo è essere attorniati da persone (o luoghi, come nel quadro di Hopper) a noi così indifferenti, così senza volto, da farci sentire “fuori luogo”, appunto. Lo stesso, naturalmente, accade all’altro, a colui che ci fa sentire così, perché entrambi ci aggiriamo inquieti in un insieme che sembra escludere (reciprocamente) solo noi. Come accade nei volti senza espressione del quadro di Edvard Munch, “Sera sul viale Karl Johan…..”, in una via affollata di tante solitudini, il “popoloso deserto chiamato Parigi” della Traviata morente.
Ancora diversa la solitudine spennellata nei tre celebri versi di Quasimodo in “Ed è subito sera”. Qui per essere davvero soli non occorre la presenza di chicchessia, basta la vita a trafiggerci e fuggire. Una constatazione malinconica ma non disperata, più simile al tramonto sul mare di Giovanni Fattori, dove a prendere la scena (e i tre quarti della tela) sono un cielo e un mare deserti, mentre l’uomo, una silouette di spalle e senza ombra, comprimaria in un angolo, può essere ciascuno di noi.
Diventa contemplazione e, per un attimo, tange l’infinito, la solitudine espressa da Emily Dickinson in “1695”, mentre assurge al ruolo di compagna in “Piccoli canti” di Alda Merini, dove l’aggettivo possessivo “mia” ne fa una amica paziente, capace di attendere a lungo il ritorno della poetessa, a volte traditrice, a volte illusa, a volte ubriacata da sentimenti destinati prima o poi a scomparire: non così la solitudine, cui sempre tornerà.Lucia Bellaspiga

AMBITO TECNICO - SCIENTIFICO
ARGOMENTO: Il dibattito bioetico sulla clonazione.

Il sogno proibito per eccellenza, o il peggiore degli incubi: la possibilità di far nascere un essere umano interamente progettato a tavolino, esattamente identico a un altro già nato. Un essere concepito, però, in modo totalmente differente da quello che la natura ha sempre fatto, con una procedura di laboratorio, inventata dalla mente umana. Una sorta di gara con il Creatore, una gara che l’umanità intera sembra comunque aver bandito dal pianeta, come si può leggere anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, dove è vietata senza se e senza ma la cosiddetta “clonazione riproduttiva”, cioè replicare un essere umano già esistente.Eppure di clonazione se ne riparla spesso: è di pochi mesi fa la notizia della prima volta della nascita di due macachi clonati, ottenuti con la stessa tecnica utilizzata per la pecora Dolly. Un passo importante, perché se la famosa pecora inglese è stata il primo mammifero clonato, i due primati rappresentano un ulteriore avvicinamento verso la complessità dell’essere umano: nonostante persista il divieto, quindi, in tutto il mondo i tentativi di affinare la tecnica continuano. Perché?
Tempo fa si parlava della possibilità di consentire la cosiddetta “clonazione terapeutica”, cioè la possibilità di formare in laboratorio embrioni umani con il Dna identico a quello di persone adulte, ma solo per ricavarne cellule staminali utili alla ricerca scientifica: gli embrioni clonati non sarebbero mai stati trasferiti in utero, ma distrutti in laboratorio per utilizzarne le preziose cellule che li compongono. Il fine dichiarato sembra nobile: alimentare la ricerca scientifica, aumentare le conoscenze.
Naturalmente, se si pone così la questione, la risposta è scontata: essere contrario ad aumentare il sapere significherebbe non voler guardare attraverso il cannocchiale, rifiutare di "seguir virtute e canoscenza”.
Ma è possibile la ricerca senza alcun limite? E quali prezzi siamo disposti a pagare, per poter fare tutto ciò che è tecnicamente possibile realizzare?
Se per ipotesi il sacrificio, anche volontario, di un solo uomo, consentisse di ottenere un vaccino universale per il cancro, saremmo disposti a quel sacrificio?
Senza nemmeno scomodare Mengele e il nazismo, l’interrogativo che tutto questo pone è ineludibile: quale deve essere il limite all’uso di vite umane per il migliore degli obiettivi possibili? Perché se alcuni possono obiettare che l’embrione umano sia una persona, è difficile negare che sia un essere umano, una vita umana. E allora, dove porre il limite?
Assuntina Morresi


TIPOLOGIA C - TEMA DI ARGOMENTO STORICO

Gli studenti che hanno accettato di cimentarsi con il tema storico proposto al primo scritto della Maturità avrebbero diritto almeno a un bonus di riconoscenza da parte della Repubblica: una sorta di “credito” supplementare, diciamo così, che andrebbe riconosciuto loro per il solo fatto di aver mostrato interesse a un argomento oggi così poco sentito e attraente. Perché ci vuole coraggio a parlare di Europa di questi tempi, in cui sentiamo degasperianamente che “tutto è contro di lei eccetto la nostra personale speranza”. E mentre un nuovo angoscioso clima di tensione internazionale ha soppiantato l’epoca psicologicamente così remota della “dis-tensione”..
Chiediamo pertanto fin d’ora tutta l’indulgenza possibile agli esaminatori, semmai troveranno negli elaborati degli ardimentosi maturandi imprecisioni terminologiche o “salti” temporali, riferimenti lacunosi o citazioni approssimative. Quelle inserite nella traccia ministeriale pretendono infatti, già di loro, una competenza ammirevole. E presuppongono anche una dose di “passione” difficile da attendersi in un diciottenne bombardato ogni giorno dalle invettive “sovraniste” e identitarie, che vedono nel binomio Bruxelles-Strasburgo una specie di Sodoma e Gomorra contemporanee.
Duole quasi ricordare, in proposito, che i due “padri” ai quali si suggerisce di fare riferimento, Alcide De Gasperi e Aldo Moro, si spesero per l’Europa proprio in nome di una comune “identità” dei popoli che ne fanno parte, convinti cioè che l’ideale unitario avrebbe aiutato gli italiani – così come gli altri partner - ad essere meglio se stessi, consegnandosi e ricevendo reciprocamente i migliori talenti nazionali.
Rimpianti da illusioni perdute? Stucchevole melassa retorica? Ognuno è libero (anche grazie a quel poco di costruzione comunitaria fin qui realizzata) di giudicare come desidera.
Ma in nome della stessa libertà, sia lecito suggerire alla Commissione Ue di chiedere alle nostre autorità ministeriali, se burocraticamente possibile, copia dei temi valutati meglio. Con l’obiettivo di curarne la diffusione e stimolarne la lettura da Lisbona a Sofia, da Helsinki ad Atene. E pardon se gli esempi geografici citati danno luogo graficamente a una specie di croce. Moro e De Gasperi avrebbero approvato senza minimamente sentirsi dei prevaricatori: le radici sono radici.

TEMA DI ORDINE GENERALE
Il principio dell’eguaglianza formale e sostanziale nella Costituzione

Assieme alla libertà (protetta in virtù dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dall’art. 2) l’eguaglianza è una delle idee guida della Costituzione italiana. Il suo ruolo nella nostra Costituzione e nella nostra attuale forma di convivenza si comprende da un lato ricordando il contesto storico in cui la Carta del 1947 vide la luce, dall’altro guardando criticamente ai nostri giorni.
Dal punto di vista storico, l’art. 3 della Costituzione doveva chiudere i conti col passato: con i residui della società aristocratica e borghese, consacrando definitivamente l’era della società di massa; con i retaggi della società tradizionale, come la diseguaglianza fra uomini e donne; ma anche con le diseguaglianze introdotte dal fascismo, cui la Costituzione della nuova Italia intendeva contrapporsi: così essa menziona, fra le cause per cui è vietato discriminare, le “opinioni politiche” (dopo vent’anni di partito unico e di proscrizione delle opposizioni), e la razza, dato che nel 1946-47 erano trascorsi appena dieci anni dalle leggi razziali volute nel 1938 dal regime fascista per consacrare l’alleanza col nazismo germanico. Ma i Padri costituenti non volevano solo esorcizzare il passato: essi guardavano al futuro ed erano consapevoli che, scrivendo una Costituzione rigida, il principio di eguaglianza sarebbe diventato – oltre che un criterio di organizzazione della società – anche una guida per l’azione del legislatore futuro, quello che sarebbe stato eletto dal 1948 in poi. Così effettivamente è stato: il principio di eguaglianza è diventato il principale criterio di giudizio sulle leggi approvate dal parlamento democratico, prendendo la forma del giudizio di ragionevolezza operato sulle leggi dalla Corte costituzionale.


Il primo comma dell’art. 3 è simile ad analoghi precetti contenuti in quasi tutte le Costituzioni contemporanee e costituisce un valore comune alle democrazie liberali, che sono fondate proprio sulla ricerca di un equilibrio fra libertà ed eguaglianza. Ma l’art. 3 non finisce lì e prosegue con un secondo comma dalla struttura testuale molto complessa, nella quale si intravede il grande compromesso fra le culture cattolica, liberale e marxista, che anima la Costituzione post-bellica. In quel testo l’azione dei poteri pubblici e quella dei privati cittadini viene orientata ad un grande progetto emancipatore, il quale, prendendo atto della difficoltà di realizzare effettivamente l’eguaglianza e la libertà delle persone, prefigura la rimozione di tutti gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana (parole in cui si riconosce il segno dalla tradizione cristiana) e la partecipazione dei lavoratori alla vita economica, sociale e politica del Paese (in cui non è difficile intravedere qualche radice marxista). Alcuni commentatori hanno visto nel secondo comma dell’art. 3 una “rivoluzione promessa” che avrebbe dovuto compensare la rivoluzione sociale non realizzata dopo la liberazione dal nazi-fascismo. Altri vi vedono l’orizzonte di una eguaglianza sostanziale (l’eguaglianza di tutti in tutto, per riprendere le parole di Norberto Bobbio), che tuttavia richiama un po’ il socialismo reale e di cui – almeno vivendo oggi, quando ci è pienamente nota la tragedia del comunismo europeo, edificato proprio sul mito dell’eguaglianza sostanziale – sarebbe bene dimenticarsi. Nel grande compito per la società italiana delineato nel secondo comma dell’art. 3 è forse meglio vedere la confessione dell’imperfezione delle strutture giuridiche basate sulle libertà e sui diritti sociali e la necessità di lottare sempre per completarle e renderle effettive, pienamente adatte alla dignità dell’uomo. Un compito che ci riguarda anche oggi: de te fabula narratur.

Marco Olivetti