Attualità

Analisi. Le lezioni di un'avanzata e il ruolo centrale di Meloni

Eugenio Fatigante lunedì 10 giugno 2024

Il palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea

L’Europa è (ri)fatta. E la destra s’è desta. Le decime elezioni europee ci restituiscono la foto di un continente stanco, sempre più depoliticizzato (continua a votare solo un europeo su due, soglia lontanissima da quel 62% di affluenza del lontano 1979, la prima volta) e animato da una forte spinta a destra, anche estrema e fortemente nazionalista (per non dire peggio) in molti Paesi. Mentre in Italia, unico fra i grandi Stati dove il centrodestra era già arrivato al governo nel 2022 (quasi un laboratorio dell’avanzata generale europea di oggi), la coalizione vince di nuovo e anche questo è un dato di fatto.

A colpire però – è innegabile – è soprattutto il dato francese (assieme a quello tedesco con l’ascesa di Afd). La decisione di Macron di sciogliere il Parlamento dopo il tracollo della sua lista Renaissance è un inedito. E mostra un aspetto finora senza precedenti: nel nuovo disordine mondiale, anche le elezioni europee hanno cambiato il loro status. Tradizionalmente si trattava di una tornata elettorale che mutava poco sui piani nazionali. Questa novità rappresenta un simbolo, magari indiretto, di come e quanto l’Europa e le sue elezioni possano contare, invece.

Per le altre forze politiche, popolari e socialiste, sarebbe però un errore cullarsi sul pericolo scampato (che era d'altronde di improba realizzazione), sull'autosufficienza numerica che fa pensare di aver vinto dato che la via più probabile – sia per la futura Commissione Europea che per l’Eurocamera - resta quella di una maggioranza a tre fra popolari, socialisti e liberali, senza ulteriori appoggi “esterni”. Il segnale che arriva da queste elezioni contiene tuttavia una “punizione” per queste forze e non può essere eluso, anzi va affrontato alla radice. Anche perché rispecchia una tendenza in Europa attesa (e temuta) ormai da mesi e che, evidentemente, meritava ben altre risposte, al di là di talune marce indietro finali operate dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Il progetto europeo è oggi più che mai a un momento di svolta, a una fase del “vorrei ma non posso”, vissuto come uno slogan che cambia di senso a seconda di chi lo usa. Negli anni ha vissuto di slanci radicali che hanno segnato la storia – vedi l’abolizione delle frontiere, la moneta unica o anche la reazione unitaria al Covid (con tanto di prima forma di debito comune) -, ma che troppo presto i cittadini hanno dato per scontati, senza acquisire una piena consapevolezza anche di un destino comune. Quel destino ora ha bisogno, perciò, di nutrirsi di nuove tappe “elevate” che facciano maturare una identità più condivisa: perché l’Europa è un sogno che si nutre di grandi ambizioni e non di tanti regolamenti settoriali, come troppo spesso avviene oggi (come nel caso di quello “green” per le case, impostato e presentato ai cittadini come una sorta di autorete).

Un sogno che, in quanto tale, ha bisogno pertanto di essere condiviso dal maggior numero possibile di governanti dei vari Paesi, al di là anche delle divisioni nelle famiglie politiche tradizionali, e che torni a scaldare il cuore dei cittadini dei vari Paesi. E che non si limiti a evocare l’immagine, sempre vivida ma ormai anche stantia, dei “padri fondatori” dell’Unione, ma che cerchi nuovi interpreti capaci di rivitalizzare oggi quell’immagine.

Per tenere peso nel contesto attuale, solo un modello più federale che confederale, col superamento delle decisioni all’unanimità, una difesa e una politica estera finalmente comuni e una maggior convergenza fiscale potrebbe farglielo acquisire. Se però nel Consiglio Europeo cresceranno con il tempo i governi sovranisti, questo non sarà forse possibile.

Il grande punto di domanda nel nuovo Parlamento Europeo resta, ora, se si formerà un gruppo parlamentare unico alla destra del Ppe, che potrebbe provare a sbilanciare a posteriori gli equilibri. E rispetto a essa come si collocherà Giorgia Meloni che, da premier già in carica, come da lei fatto notare più volte nei mesi scorsi dovrà per forza di cose mantenere aperto un canale di dialogo con la maggioranza europeista? E’ un’incognita che affida un ruolo mai così centrale proprio alla leader di Fdi che può dirsi soddisfatta di queste elezioni, anche sul piano interno: non arriva con i suoi Fratelli a quel 30% che all’inizio aveva vagheggiato, ma comunque ci si avvicina e ne esce rafforzata (mentre retrocede la Lega). E dato che da noi la campagna elettorale è stata molto focalizzata sui temi italiani, questo aumento sembrerebbe dire – al di là della prestazione pur buona del Pd (che va a scapito di M5s in una sorta di vasi comunicanti, restituendo un quadro sempre più bipolare, come sottolineato da Meloni stessa) - che nel Paese non c’è ancora una vera rivolta contro progetti fortemente divisivi come il premierato e l’autonomia regionale (ormai vicina al varo definitivo), sui quali a questo punto la premier andrà avanti.

Un’ultima considerazione riguarda le guerre e sarà un motivo d’imbarazzo per Meloni: la linea filo-atlantista e pro-Ucraina della premier italiana rappresenta un’eccezione in un panorama di destre europee (e dei cittadini che le hanno votate, specie in Francia dove hanno bocciato nettamente il profilo bellicista di Macron) che, nella loro avanzata, hanno una posizione diversa dalla sua sulla questione bellica, anche arrivando a punte estreme di aperto filo-putinismo (come nel caso della tedesca Afd, che però ora è fuori dal gruppo di Id). Una posizione che, naturalmente, sarà poi influenzata anche dall’esito delle presidenziali americane, con la sfida fra Biden e Trump: la probabile vittoria di quest'ultimo farebbe di Giorgia e Ursula von der Leyen i veri baluardi europei anti Putin. Ma la premier italiana come saprà risolvere questa sua "doppia natura" nei rapporti internazionali? Di questo nuovo quadro davanti all'opzione guerra, intanto, tutti - anche le sinistre e i moderati - dovranno in qualche modo tenere conto nel prossimo futuro.