Migranti. La morte del tunisino Latif in un ospedale: tutte le domande aperte
Abdel Latif è morto a soli 26 anni, lo scorso 28 novembre, nel reparto psichiatrico dell'Ospedale San Camillo di Roma. Giunto in Italia dalla Tunisia, si trovava nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Ponte Galeria dal 13 ottobre.
Questi sono i fatti di un caso giudiziario assai complesso, il giovane tunisino era giunto in Italia ai primi di ottobre e dopo un periodo di quarantena sulla nave della compagnia GNV, come oramai da prassi per chi proviene dalla Tunisia, non era riuscito a manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale. Invece che essere accolto, era stato inviato in direttissima al Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Ponte Galeria, con un certificato che ne attestava la compatibilità con la vita ristretta.
Dieci giorni dopo, però, nel colloquio con la psicologa della struttura manifesta sintomi di sofferenza e di disagio psichico. La psicologa chiede quindi la visita di uno specialista in psichiatria della Asl territoriale, che avviene un paio di settimane dopo. Lo psichiatra riconosce condizioni indicative di una sofferenza mentale e gli prescrive una terapia farmacologica. Passano dieci giorni e Abdel, ancora sofferente e forse intollerante ai farmaci, incontra nuovamente la psicologa, che chiede un nuovo consulto psichiatrico. A questo punto lo psichiatra dispone il ricovero in un ambiente ospedaliero che consenta una più attenta valutazione delle sue condizioni cliniche e delle necessità terapeutiche. Abdel viene prima portato al pronto soccorso dell’ospedale Grassi di Ostia e poi di là al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura della Asl Rm3 attivo presso l’ospedale San Camillo di Roma. Lì, tre giorni dopo il ricovero Abdel muore.
A denunciare la vicenda è stata per prima la campagna LasciateCIEntrare, su segnalazione del deputato tunisino Majdi Kerbai.
«Abdel era un ragazzo tranquillo, i genitori dicono che non aveva mai avuto problemi psichici, era uno sportivo, come è finito legato a un letto del San Camillo» ha spiegato Majdi Karbai, deputato tunisino che per primo ha denunciato il caso. «La mamma di Abdel è distrutta, la sorella vuole iniziare uno sciopero della fame per chiedere verità e giustizia - ha spiegato Karbai al Redattore sociale -. È assurdo quello che è successo, era solo un ragazzo che aveva un sogno, quello di poter cambiare vita e aiutare la famiglia». Abdel, originario di Kebili, città a sud della Tunisia, aveva deciso di partire dopo aver perso il lavoro come commesso in un supermercato. «Così avrebbe potuto aiutare i familiari a sostenersi e le due sorelle a studiare, una è all'università e una alle elementari - continua il deputato -. A me è stato negato l'accesso al Cpr di Roma anche se sono un deputato tunisino e questo non è accettabile. Voglio poter vedere i miei connazionali, capire anche attraverso le loro testimonianze cosa è accaduto. Ai ragazzi tunisini non viene mai dati la possibilità di accedere alla protezione internazionale, ma vengono velocemente spediti in un Cpr per essere rimpatriati. Non è un caso che mentre i familiari di Abdel chiedono verità e giustizia il suo paese taccia. La Tunisia ha un accordo con l'Italia di milioni di euro per i rimpatri. Ma se vengono violati i diritti umani non può essere solo la società civile ad alzare la voce».
La denuncia è stata poi rilanciata dal garante nazionale per i detenuti Mauro Palma, su mobilitazione del garante laziale, Stefano Anastasia. La procura di Roma ha quindi aperto un fascicolo e disposto l’autopsia per fare luce sul decesso del giovane 26enne.
Il sito di informazione, Open Migration, che pure ha ricostruito parte della vicenda segnalando che nel Centro di Ponte Galeria, dal 1° gennaio al 30 giugno 2021 sono transitate 363 persone, di cui ben 297 erano tunisini ossia l’81,82% del totale. Questi numeri rappresentano gli effetti degli accordi tra Italia e Tunisia: la celerità con cui vengono effettuati questi rimpatri collettivi comporterebbe però, secondo Open Migration, gravissime violazioni dei diritti dei cittadini tunisini.
Secondo Open Migration «Abdel Latif è la settima persona - negli ultimi 2 anni - a morire mentre si trovava all’interno di un CPR. Morti che non sempre hanno avuto giustizia, anche a causa delle difficoltà nel ricostruire quanto succede in quei luoghi opachi che sono i Centri di Permanenza per i Rimpatri».
Anche il garante per i detenuti del Lazio, Stefano Anastasia ha posto una serie di domande pubbliche sulla morte di Abdel Latif, augurandosi che la Procura di Roma nei prossimi mesi riesca a fare piena luce su quanto accaduto al ragazzo nei suoi ultimi due mesi di vita.
Tra le domande rimaste ancora senza risposta è centrale quella che riguarda la sofferenza mentale di Abdel. «Era precedente al suo trattenimento o è maturata nel corso del suo svolgimento? - chiede il garante Anastasia - E, nella prima ipotesi, perché non è stata valutata nella “compatibilità con la vita ristretta”? Nella seconda ipotesi, invece, come è possibile che un trattenimento di dieci giorni (certo: successivo alla quarantena e alle difficili condizioni di arrivo in Italia) faccia emergere una sofferenza tale da imporre un ricovero per accertare un disturbo psichiatrico e i modi per trattarlo?».
E ancora, sempre il garante laziale: «Quale offerta terapeutica è stata data ad Abdel nei cinque giorni di ricovero, prima al Grassi e poi al San Camillo? Dal registro della contenzione dell’ospedale romano sembra che il ragazzo sia stato legato al letto per tutte le sessantatré ore di degenza nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura. E’ così?»
E infine, il garante per i detenuti del Lazio, Stefano Anastasia nel suo intervento pubblico si è interrogato «se mai in tutto questo abbiano avuto un ruolo le condizioni di arrivo in Italia, o di trattenimento sulla nave quarantena o nel Cpr, bisognerà tornare a chiedersi se tutto questo armamentario respingente e coattivo ha un senso, se la vita umana può essere messa a repentaglio per la difesa simbolica di un confine statale».