Attualità

IN VOLO SULLE ZONE COLPITE. Le cicatrici della terra e quelle di un popolo

dal nostro inviato Paolo Viana giovedì 9 aprile 2009
Visto da cinquecento piedi di altezza, il terremoto è blu e fa meno paura. Le tende del ministero dell’Interno interrom­pono la rilassante monotonia del verde abruzzese, che si arrampica sull’altopiano delle Rocche e si i­nerpica, ingrigendosi, verso il Gran Sasso. Visto da un CH47, il blu intenso delle tendopoli alle­stite dalla Protezione civile balza agli occhi più dei muri divelti, del­le absidi schiantate e dei campa­nili smozzicati. È il segno che lì è arrivato il ' demone' ma anche che lì è arrivata la solidarietà de­gli uomini. Il nostro osservatorio è un ' Charlie' che i piloti di tutti gli eserciti chiamano chinook. È u­no dei più grossi. Può sembrare vecchiotto, visto che il progetto l’ha firmato la Boeing nel 1947, ma è ancora molto efficiente in que­ste situazioni. Doppia elica, capa­ce di trasportare carichi di nove tonnellate agganciandoseli sotto la pancia, il chinook è prezioso quando si devo­no salvare in fretta delle vite umane in zone di guerra. Oggi l’Abruzzo lo è, anche se il ne­mico è invisibi­le, sotterraneo. Insieme al più agile Ab412, il nostro Ch47 Charlie ha già volato cinquan­ta volte per tra­sportare i feriti dell’Aquila nei diversi ospeda­li. « Portiamo 24 barelle a pieno carico», spiega il comandante. Carmine Barto­lino è un tipo tranquillo, ha u­na faccia da bravo ragazzo dei ca­stelli romani; del resto, i top gun del primo reggimento Antares di Viterbo, che sfrecciano in questo cielo giorno e notte per trasporta­re medicine e feriti, sono gente co­sì, tanto simile e tanto vicina a quegli abruzzesi che, là sotto, li a­spettano. Visto da quassù, l’Abruzzo non sembra una terra in ginocchio. I palazzoni moderni dell’Aquila mi­metizzano bene la loro sofferenza, ma le ferite ci sono. Nel centro sto­rico, ma non solo. Sorvoliamo i tet­ti afflosciati e travi spezzate come stuzzicadenti. Alcuni palazzi del Settecento sembrano castelli di sabbia su cui è passata un’onda fe­roce. La tragedia dell’Aquila appare più piccola dal cielo. L’altezza modifi­ca la prospettiva e anche le emo­zioni. Che virano decisamente quando dal finestrino appare la basilica di Collemaggio. L’abside è affondata. Sembra che dai detri­ti oggi emerga solo la croce del sar­cofago di Celestino V. Il sole inon­da il cuore della Perdonanza, del­la devozione aquilana, delle tradi­zioni. Le pale dell’elicottero so­vrastano un mozzicone di cam­panile e la cattedrale pugnalata dal sisma: più si scende di quota, più le facciate sfregiate, le vetrate in frantumi, le colonne spezzate certificano che le stime – il 70 per cento dei centri storici sarebbe le­sionato o distrutto – sono realisti­che. Tuttavia, mentre l’elicottero volteggia sui centri del disastro, ad ogni frazione, ad ogni campanile interrotto, ad ogni casolare spac­cato, si scopre che c’è anche un A­bruzzo diverso dalle impressioni e dalle paure. San Gregorio, Poggio Picenze, Paganica: è l’una e c’è gente nelle strade, nelle piazze, nei Nella foto grande, una panoramica di Onna ripresa da un elicottero. Foto piccole, la tendopoli allestita a Onna, il paese completamente evacuato dove sono morte quaranta persone; alcune case rase al suolo e la cattedrale dell’Aquila, gravemente danneggiata dalle scosse di questi giorni come altri monumenti del capoluogo abruzzese. Il centro storico della città è completamente devastato ed è stato chiuso giardini. Sotto di noi si srotola un Abruzzo che non è solo blu ten­dopoli, ma anche bianco come i gazebo e rosso come le canadesi, insomma una terra arcobaleno come i ripari di fortuna che gli a­bruzzesi hanno allestito pur di non allontanarsi da casa propria. Era prevedibile. Nei paesini di Si­lone e Scarfoglio, la sera la si a­spetta seduti sull’uscio con il vici­no, a veder se passa qualcuno, e la casa avita non la si abbandona neanche quando minaccia di tra­sformarsi nella tomba di famiglia. Così, anche ora che la terra conti­nua a tremare, molti hanno diser­tato la tendopoli per riunirsi nel giardino di casa o bivaccare in au­to sulla piazza del paese. Lontano dai muri insidiosi, d’accordo, ma non troppo lontano. Solo nelle strade di Onna non c’è anima vi­va. Quaranta morti: stiamo sorvo­lando la frazione fantasma dell’A­quila, difficile parlarne perché non è rimasto in piedi più nulla. Una macchia di rovine in mezzo ai pra­ti. Si è salvato solo l’asilo delle suo­re, che se ne sta lì da 125 anni, gial­lo come i fienili che hanno ri­strutturato per la villeggiatura e che adesso sono solo mucchi di polvere. Riprendiamo quota, la turbolen­za creata dalle pale del Charlie ri­succhia tutto quel che trova per decine di metri. Ci lasciamo alle spalle i ' ragazzi' del sesto reggi­mento del Genio pionieri di Ro­ma: autoribaltabili, pale meccani­che, martelli pneumatici e gruppi elettrogeni sono le loro armi. So­no arrivati là sotto poche ore do­po la prima scossa e non se ne an­dranno finché la 'guerra' non sarà finita e queste terre alte non a­vranno sanato le loro piaghe. Ci vorrà tempo. La cittadella di Poggio Picenza è un unico arabe­sco di tetti e detriti. La scossa ha sfregiato la facciata di una chiesa, tagliandola esattamente a metà. « Due domeniche fa abbiamo por­tato la statua di San Benedetto in processione lungo la via L’Aquila, e c’era tutto il paese. Ora il nostro santo è là sotto » , spiega, e quasi piange, don Luciano Bacale. La sua parrocchia, Bagno, inizia do­ve le case sfumano in mucchi di pietrame. Anche lui è salito sul Charlie, per vedere dall’alto cos’ha fatto veramente il ' demone' lu­nedì notte. Ha portato con sé una digitale ma se la rigira nervosa­mente tra le mani: «Non me la sen­to di fotografare questo scempio. Non avrei il coraggio di mostrare le immagini alla mia gente » . È crollata la parrocchiale, ma anche la chiesa di Sant’Angelo ostenta le proprie ferite, come pure il cam­panile della chiesa madre. «Da qui – avverte – non si vede bene quel che è avvenuto; non avete l’idea di cosa sia passato sopra il mio paese » . Sopra, sotto, dovunque. Il prete ammutolisce, passando so­pra la casa- tomba di una delle vit­time di Bagno: ' Era una bimba di otto anni – racconta – ma da qui non si capisce il disastro, dobbia­mo scendere di più » . Un’altra vi­rata, un’altra ancora e Charlie è su via XX Settembre. Altre strisce di detriti e di morte che s’intuiscono appena dal cielo. E sono ancor più invisibili, da cinquecento piedi, i soldati e i volontari, che, a mi­gliaia, ricuciono queste ferite con una pazienza che il mondo ci in­vidia. Visti da quassù, si confon­dono anche loro con il verde del­l’Abruzzo.